mercoledì 21 agosto 2024
amministratrici
“L’amministratore di sostegno è una figura istituita per quelle persone che, per effetto di
un’infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trovano nell’impossibilità, anche parziale
o temporanea, di provvedere ai propri interessi”. Inizia così, sul sito internet del Ministero della
Giustizia, la scheda informativa relativa a questo istituto, così come previsto dalla legge 6 del
2004 che lo ha profondamente riformato. Anziani e disabili, ma anche alcolisti,
tossicodipendenti, detenuti e malati terminali possono chiedere mediante ricorso – anche se
minori, interdetti o inabilitati - che “il giudice tutelare nomini una persona che abbia cura della
loro persona e del loro patrimonio”. Ma tale richiesta – che non necessita dell’assistenza di un
avvocato - può anche essere presentata dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai
parenti entro il quarto grado (relativo a cugini, pronipoti e prozii), dagli affini entro il secondo
grado (suoceri, generi e nuore, cognati), dal tutore o curatore e dal pubblico ministero. Tuttavia
la scheda precisa anche che “i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati
nella cura e assistenza della persona, se sono a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna
l'apertura del procedimento di amministrazione di sostegno, sono tenuti a proporre al giudice
tutelare il ricorso o a fornirne comunque notizia al pubblico ministero”.
Ed è proprio quest’ultima possibilità che ha consentito il verificarsi di un paio di casi di cui siamo
venuti a conoscenza, entrambi relativi a pazienti psichiatrici fiorentini e caratterizzati dalla
nomina di un amministratore di sostegno al di là della volontà delle loro famiglie, nonostante
che queste avessero sempre avuto a cuore la salute ed il bene dei loro congiunti. In sostanza,
dietro la richiesta di servizi psichiatrici e assistenti sociali che avevano in carico i suddetti
pazienti, il giudice tutelare avrebbe operato in entrambi i casi una scelta che sembrerebbe
andar contro quanto prevede la legge stessa, laddove indica di preferire come amministratore di
sostegno, nell’ordine, il coniuge che non sia separato legalmente, la persona stabilmente
convivente, il padre o la madre, il figlio, il fratello o la sorella, il parente entro il quarto grado,
il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata
autenticata. C’è però un “se possibile” che di fatto lascia una discrezionalità forse troppo
ampia, che alla fine, probabilmente anche per un certo scarico di responsabilità, si indirizza
fatalmente verso la ratifica del quadro fornito dai professionisti interessati rispetto a quello
presentato dai familiari.
La delicatezza della questione non è di poco conto soprattutto se si tiene conto del fatto che il
decreto di nomina dell’amministratore di sostegno deve contenere tutta una serie di indicazioni
decisamente “sensibili”, quali la durata dell’incarico, che può essere anche a tempo
indeterminato, il suo oggetto, gli atti che l'amministratore di sostegno ha il potere di compiere
in nome e per conto del beneficiario e, viceversa, quelli che quest’ultimo può compiere solo con
l'assistenza del primo, la periodicità con cui l’amministratore deve riferire al giudice circa
l'attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario e infine, quel che più
conta, i limiti, anche periodici, delle spese che l'amministratore di sostegno può sostenere con
utilizzo delle somme di cui il beneficiario ha o può avere la disponibilità. In entrambi i casi di
nostra conoscenza, non a caso, tale disponibilità economica era presente.
Sebbene la legge preveda espressamente che gli operatori dei servizi pubblici o privati che
hanno in cura o in carico il beneficiario non possono ricoprire le funzioni di amministratore di
sostegno, si crea però di fatto un meccanismo in cui i familiari interessati vengono emarginati e
privati anche della possibilità di una cogestione del patrimonio comune, casa compresa. È
quanto successo, in uno dei due casi, alla sorella del beneficiario, caduta per questo in uno stato
di profonda prostrazione psicofisica. E pur non intendendo affatto mettere in dubbio la buona
fede del giudice tutelare e degli operatori in questione, non possono non emergere dubbi sulla
gestione della vicenda – nata in seguito alla morte del padre dei due fratelli – che ha portato
anche a un incremento dell’invalidità del paziente con conseguente perdita dell’idoneità al
lavoro in cui, pur con tutti i suoi limiti, era impegnato. Fattore scatenante dell’altro caso è stato
invece un contenzioso tra i tre fratelli del disabile e la struttura psichiatrica di riferimento in
merito alle nuove modalità di assistenza loro prospettate (che di fatto si configuravano come un
forte allentamento, se non addirittura una rinuncia, della presa in carico).
In casi come quelli citati (ma sembra che ce ne siano anche altri, secondo quanto ci riferisce il
Coordinamento toscano delle associazioni per la salute mentale, che intende approfondire il
tema), il circolo che si crea tra servizi psichiatrici, assistenti sociali, giudice tutelare e
amministratore di sostegno chiude di fatto fuori la famiglia del disabile anche quando in
quest’ultima è chiaramente presente un rapporto affettivo senza secondi fini nei confronti del
proprio congiunto. Problemi di rapporto dei familiari con i servizi o eventuali giudizi di
inadeguatezza dei rapporti interfamiliari non sono certo sufficienti a giustificare una simile
emarginazione, anche per le ripercussioni negative che questa potrebbe avere sugli stessi
disabili che almeno a parole si vorrebbero invece tutelare. Tenendo anche conto del fatto che,
secondo quanto previsto dalla legge, la scelta dell'amministratore di sostegno deve avvenire
“con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario”.
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