I N D I C E
- Introduzione 3
- INTERCULTURA 4
- Etimologia 5
- Le esperienze nell'associazione CISV 5
- Il progetto “Un mondo per amico” 6
- “Lingue senza frontiere” 7
- Conosciuta, sconosciutissima Africa 9
- Normativa 10
- CONTINUITA' 13
- Etimologia 14
- Continuità verticale e orizzontale 14
- Rappresentazioni e riflessioni 15
- Modalità operative di raccordo 19
- Coordinamento territoriale 25
- La continuità negli istituti comprensivi 26
- SVANTAGGIO ed HANDICAP 27
- Etimologia 28
- Terminologia 29
- Documentazione 30
- Normativa 31
- Verso l'autonomia 31
- Disturbi evolutivi specifici dell'apprendimento 32
- La storia 33
- Il punto di vista pedagogico 35
- L'accoglienza 38
- L'inserimento nella scuola primaria 41
- In poesia e in prosa 43
- TIROCINIO DIRETTO 47
- ALLEGATI 52
-
Introduzione 3
-
INTERCULTURA
4
-
Etimologia 5
-
Le esperienze nell'associazione CISV 5
-
Il progetto “Un mondo per amico” 6
-
“Lingue senza frontiere” 7
-
Conosciuta, sconosciutissima Africa 9
-
Normativa 10
-
CONTINUITA' 13
-
Etimologia 14
-
Continuità verticale e orizzontale 14
-
Rappresentazioni e riflessioni 15
-
Modalità operative di raccordo 19
-
Coordinamento territoriale 25
-
La continuità negli istituti comprensivi 26
-
SVANTAGGIO ed HANDICAP 27
-
Etimologia 28
-
Terminologia 29
-
Documentazione 30
-
Normativa 31
-
Verso l'autonomia 31
-
Disturbi evolutivi specifici dell'apprendimento 32
-
La storia 33
-
Il punto di vista pedagogico 35
-
L'accoglienza 38
-
L'inserimento nella scuola primaria 41
-
In poesia e in prosa 43
-
TIROCINIO DIRETTO 47
-
ALLEGATI 52
Introduzione
Durante
questo secondo anno di tirocinio, noi studenti di Scienze della Formazione
Primaria insieme alla nostra tutor supervisore Carmelina Rotundo, abbiamo
affrontato le tematiche inerenti
DISAGIO
CONTINUITA’
INTERCULTURA
Questo
nuovo percorso di dialogo e cooperazione è stato intrapreso alla fine di
settembre ed è stato suddiviso in due parti: una prima della durata di diciotto
ore, tre per ciascun incontro, fino alla fine di dicembre. La seconda parte, di
dodici ore, tra la fine di febbraio e la fine di maggio, con la stessa modalità
appena sopra descritta.
Dapprima,
la nostra tutor, Carmelina Rotundo, ha programmato un incontro con due
rappresentanti del C.I.S.V. (Children International Summer Village), che ci
hanno parlato dell’Associazione e degli importanti obiettivi raggiunti negli
ultimi anni; un secondo incontro è avvenuto con l’insegnante Susanna Guarducci,
a proposito del progetto dal nome “Un Mondo per amico”, svolto presso sette
istituti del polo nord-ovest di Firenze.
A tal
proposito, abbiamo ottenuto informazioni e opuscoli dalla nostra tutor che ci
ha, inoltre, offerto del materiale avuto da un incontro, a cui lei aveva
partecipato, sull’Africa, invitandoci a comprendere meglio questo meraviglioso
mondo.
Successivamente,
negli incontri di tirocinio indiretto, ci siamo divisi in tre gruppi, di otto
persone ciascuno, uno per ogni tematica di questo anno, che sarebbe stata anche
oggetto di osservazione nella parte di tirocinio diretto. Tali gruppi non erano
statici, ma si univano e interagivano tra loro; la nostra tutor ci ha fornito
materiale che poteva essere utilizzato nella relazione da stilare, invitandoci
a riflettere su queste attuali problematiche.
Durante
le lezioni abbiamo controllato e visionato il lavoro più volte per poi
rielaborare la stesura definitiva. Insieme alla tutor abbiamo controllato i
contenuti e la forma, correggendo gli errori ortografici, la punteggiatura,
togliendo ripetizioni di vocaboli, cercando di produrre un testo corretto e
completo.
L’intero
gruppo ha sempre dimostrato spirito di collaborazione e capacità di curare e
approfondire le tematiche del nostro percorso, visibile nella parte a seguire.
INTERCULTURA
Etimologia
Una
delle tematiche che abbiamo affrontato noi studenti del Corso di Laurea in
Scienze della Formazione Primaria, con la tutor supervisore Carmelina Rotundo,
durante l’anno accademico 2008/2009, è stata l’intercultura.
Ricercandone
l’etimologia, questa parola deriva dall’unione dei due termini “inter” e
“cultura”, entrambi di origine latina: “inter” ha diverse accezioni: assume
significato di “tra” nel senso di luogo, di tempo, di partitivo, di differenza,
di relazione, di reciprocità. “Cultura” deriva dal verbo “colĕre”; ha come
primo significato quello di “coltivare”; come secondo quello di “curare”,
“educare”; infine quello di “culto”. Oggi il valore da noi attribuito a
“coltura” è molto lontano da quello attribuito a “cultura”.
Tuttavia,
proprio analizzando l’origine etimologica, si può osservare il nesso analogico
tra le due parole: per i latini, l’idea di coltivazione dei campi è associato a
quella dello spirito che, con l’esercizio, arricchito in modo costante dai
nuovi saperi pratici e teorici, cresce e si sviluppa.
Il
termine esprime il dinamismo del dialogo fra tradizioni diverse radicate nella
storia e nell’identità di ogni popolo, in uno scambio reciproco e ininterrotto
in cui ciascuna parte assume una “nuova” forma durante l’incontro. Come indica
la preposizione “inter”, alla base del concetto di intercultura, si trova
l’idea dell’arricchimento attraverso
l’ascolto di ciò che è diverso da noi, lo scambio, la relazione che portano ad
un “continuo” cambiamento di se stessi e con gli altri, per scoprirsi tutti
degni di uguale rispetto nella specificità.
L’intercultura
ha richiamato alla mente di noi studenti diverse parole ad essa correlate: il
viaggio, come spostamento; la scoperta dell’“altro”, intesa come conoscenza di
persone, di paesaggi, di cose diverse da quelle a cui siamo abituati; la
conoscenza e il movimento (in relazione al viaggio, allo spostamento e alla
scoperta della diversità), il rispetto e l’arricchimento (in funzione della
conoscenza di ciò che l’altro ha portato), gli stimoli, la crescita (dovuti alla
curiosità e alle sollecitazioni diverse).
Le
esperienze nell’associazione CISV
Noi
studenti, ci siamo anche sentiti coinvolti nell’intercultura attraverso il CISV. Abbiamo infatti, grazie alla
nostra tutor, avuto modo di incontrare due rappresentanti dell’associazione
CISV (Children International Summer Village).
Brevi cenni storici
Il CISV
nasce nel 1946 dall’idea di una psicologa infantile, Doris Allen, per la quale
era importante «cominciare dai bambini» per costruire una società tesa verso la
cooperazione, il dialogo e la tolleranza.
Lei è
stata una personalità fondamentale per l’Associazione,
infatti elaborò, per l’utilizzo nelle loro ricerche il test dimensionale
della personalità “Twitchell - Allen Tree”. Inoltre, per il CISV, ricoprì le cariche
di Presidente Internazionale (1951-1956), Membro del Consiglio
d'Amministrazione (1956-1965), Presidente per la Ricerca (1951-1969) e Membro a
vita (1970) del CISV - USA. Fondò anche la International School Experience
(ISSE), nel 1971, per ampliare le basi del CISV coinvolgendo un numero maggiore
di bambini tramite gli scambi scolastici internazionali. Dal 1988 Doris Allen
e' stata Consigliere Onorario del Comitato della Fondazione CISV Internazionale
per la Pace. Per il suo instancabile e memorabile lavoro, la psicologa infantile ha ricevuto quattro
dottorati ad honorem per il suo operato per la pace internazionale nell'ambito
del CISV e come psicologa infantile.
Obiettivi
L’associazione
coinvolge bambini e giovani nel comprendere e apprezzare la diversità,
considerata come risorsa preziosa per arrivare a costruire un mondo che
riconosca in pace, solidarietà e aiuto reciproco, una società fondata sul
rispetto.
Attualmente
Il CISV
è presente in più di settanta nazioni e organizza campi internazionali rivolti
ai bambini di età maggiore agli undici anni. I partecipanti sono seguiti da un
leader che svolge il ruolo di educatore e accompagnatore; dietro questa figura,
vi è una sistematica attività di preparazione e formazione, organizzata tramite
incontri periodici a livello nazionale e locale. Le attività proposte
dall’associazione riguardano il campo internazionale e lo scambio.
Durante
il primo, si riuniscono dodici delegazioni di Paesi differenti, per un totale
di 48 bambini; nei primi giorni si sceglie il tema da realizzare nel campo,
dando importanza all’accoglienza e alla conoscenza tra educatori e
partecipanti. In seguito vengono messe in atto le attività ludiche, teatrali,
progetti che fanno conoscere le tradizioni e i costumi di altre culture sotto
forma di gioco.
In
alternativa l’organizzazione offre la possibilità di scambi che coinvolgono due
paesi: i bambini sono accolti nella famiglia straniera e hanno modo di
conoscere la realtà del paese ospitante, differente dalla propria, tramite
attività atte alla conoscenza della diversa cultura.
Successivamente
avviene lo scambio inverso: questo secondo tipo di attività ha il vantaggio di
coinvolgere le famiglie nelle importanti esperienze dei bambini, per la
creazione di un clima più intimo, familiare e accogliente.
Un
traguardo di grande valore per il raggiungimento dello scopo
dell’Associazione è stato il campo
internazionale a Monte Sole dove sono
stati invitati bambini arabo-israeliani e palestinesi. Incontro che ha
dimostrato come i bambini non si pongano problemi di provenienza, razza,
appartenenza religiosa e sociale.
Il
progetto “Un mondo per amico”
Un’altra
significativa occasione per sottolineare l’importanza della multiculturalità ci
è stata data dalla presentazione di un progetto realizzato dalla collaborazione
di sette istituti del polo nord-ovest di Firenze (Scandicci, Signa, Lastra a
Signa) svolto durante l’anno scolastico 2006/ 2007.
A
presentarci questa iniziativa è stata la dottoressa Susanna Guarducci,
insegnante presso un istituto di Lastra a Signa, invitata dalla dottoressa
Maria Di Biagio e alla presenza della nostra tutor Carmelina Rotundo, che ci
aveva fornito un opuscolo a proposito.
Il
progetto territoriale interculturale “Un mondo per amico” ha come
obiettivo la sperimentazione sull’integrazione e sull’insegnamento
dell’italiano come seconda lingua.
Abbiamo
avuto il piacere di partecipare all’incontro perché, in tal modo, siamo venuti
a conoscenza delle modalità concrete con cui è possibile realizzare gli
obiettivi che rendono possibile l’integrazione e l’inserimento di bambini
stranieri: la diversità è assunta come paradigma dell’identità della scuola.
Tale
agenzia formativa diventa, quindi, un laboratorio di inclusione sociale,
tematica di importanza sempre maggiore in questi anni di massiccia immigrazione
che talvolta viene vissuta come un disagio anziché una risorsa.
Alla
base del progetto “Un mondo per amico” vi è l’idea di una società
multietnica e pluriculturale, a cui si arriva attraverso la conoscenza
dell’altro e l’accoglienza.
L’interessante
incontro è stato vissuto da noi studenti come condivisione di esperienze e di
valori, crescita reciproca nel rispetto della diversità in un’ottica di
integrazione e inclusione.
Abbiamo
capito che occorre evitare di cadere in un processo di assimilazione nel
tentativo di omologare gli individui di culture differenti.
Abbiamo
ritenuto interessante sottolineare qui la frase di Buber: «Tutti in transito, ognuno straniero»
che esprime la necessità di un atteggiamento di apertura nei confronti della
diversità di cui ciascuno di noi è portatore. Difficile ed impegnativo è a tal
proposito il compito del maestro che deve essere paziente, lungimirante,
competente, appassionato.
“Lingue
senza frontiere”
All’interno
della riflessione sul tema dell’intercultura, la nostra tutor Carmelina Rotundo
ha offerto la possibilità al nostro gruppo di tirocinio di conoscere
l’Associazione culturale e di volontariato O.N.L.U.S. “Lingue senza frontiere”,
organizzazione che si occupa della progettazione di attività laboratoriali,
teatrali, ludiche presso le scuole (durante l’anno scolastico) e in campi
estivi, per l’apprendimento dell’inglese, del francese o dell’italiano L2.
L’Associazione
dà anche la possibilità agli insegnanti di lingua inglese di partecipare a
seminari di aggiornamento gratuiti, tenuti in varie città italiane e che
pongono al centro l’insegnamento della lingua L2 e l’educazione
all’intercultura. Anche la nostra tutor ha partecipato all’incontro che si è
tenuto a Firenze il giorno 8 novembre 2008 presso l’Istituto San Giovanni
Battista Merlo Bianco. La professoressa ci ha raccontato dettagliatamente
l’esperienza vissuta e il suo grande valore formativo, sia dal punto di vista
umano che dal punto di vista culturale. Le numerose e varie attività, terminate
con uno spettacolo teatrale, hanno permesso di fare un viaggio attraverso
culture e tradizioni di Paesi diversi, in un clima di fiducia, dialogo ed
entusiasmo.
Obiettivi
Gli obiettivi che l’organizzazione si prefigge
sono:
- la crescita globale dei bambini
- lo sviluppo delle loro abilità comunicative, relazionali e cognitive
- l’incremento del loro interesse per lo studio e l’approfondimento della lingua L2 attraverso attività stimolanti.
Imparare giocando
Lo
slogan delle attività del “campo senza frontiere” è «Edutainment: l’altro modo di imparare». Queste parole sono molto
significative, infatti indicano l’uso di metodi diversi rispetto a quelli
tradizionali, basandosi su percorsi didattico-educativi, per bambini dai 5 ai
12 anni, organizzati in modo tale da permettere di imparare divertendosi,
attraverso il gioco.
E’ per
mezzo dell’attività ludica che i bambini entrano in contatto con la lingua in
maniera diretta, profonda, creativa, infatti il gioco è la modalità privilegiata attraverso
cui essi conoscono e danno senso alla realtà.
L’amore
per lo studio e la curiosità per nuovi saperi, provenienti da Paesi diversi, è
favorito proprio dal gioco che permette agli alunni di assimilare strutture che
non verranno mai dimenticate, rappresentando il bagaglio personale che ciascuno
porterà con sé per sempre.
Formazione
globale tramite l'esperienza
L’apprendimento viene costruito gradualmente
attraverso l’immersione in contesti
significativi, in esperienze concrete,
in osservazioni e riflessioni, perseguendo l’obiettivo di una formazione integrale, che riguardi la sfera affettiva, motoria, sociale,
cognitiva.
La
ricerca costante di collegamenti tra aspetti diversi della lingua favorisce l’interdisciplinarietà, per la creazione
di un pensiero divergente e aperto, in grado di osservare la realtà da
molteplici punti di vista.
Dialogo interculturale
L’approccio
con la lingua straniera è mirato al dialogo tra culture e tradizioni
differenti, da cui si sviluppa uno scambio e un arricchimento reciproco.
I principi
alla base dell’Associazione possono essere resi anche visivamente attraverso
una storia di grande effetto: un visitatore fa un viaggio all’Inferno e vede
una tavola riccamente imbandita, attorniata da individui tristi e scontenti,
poiché non possono raggiungere il cibo con gli strumenti a loro disposizione;
in seguito il nostro decide di andare a osservare il Paradiso, dove si trova
davanti alla stessa situazione. Vede una tavola ricca di cibo, ma con una
importante differenza rispetto a quella dell’Inferno: qui le persone sono
felici, perché si “cibano” del loro stare con gli altri, del rapporto e del
dialogo che costruiscono insieme.
Attività
Le
attività proposte si aprono con la creazione di un clima di accoglienza e
serenità, attraverso l’apprendimento di formule di saluto provenienti da vari
Paesi del mondo, strumenti essenziali per favorire la conoscenza tra i bambini.
L’insegnamento
della lingua non deve mai essere separato dal percorso verso nuove realtà,
nuovi modi di pensare, nuove “visioni del mondo”, in grado di stimolare
l’apertura, la curiosità e il rispetto verso il diverso.
I
metodi non sono basati sulla trasmissione di conoscenze, ma sulla costruzione
autonoma e naturale da parte di ogni bambino, per mezzo di giochi e di
situazioni autentiche.
Hats off to you!
Ecco
allora che dall’indossare un cappello straniero si inizia il viaggio verso una
terra lontana: i bambini mimano un gesto tipico del Paese indicato dal cappello
e improvvisamente la lingua non è più studio astratto di regole grammaticali e di liste di parole fuori dal
contesto, ma diventa cultura, abitudini, tradizioni e viene appresa pienamente,
perché filtrata dall’emozione.
Food, glorious food!
Lo
studio delle tradizioni culinarie straniere può rappresentare un’occasione per
conoscere le storie, i profumi, le sensazioni legate ai cibi di popoli
stranieri.
Travellimg by tales
La
presentazione e il confronto tra fiabe
straniere e quelle del Paese di origine permette ai bambini di capire come
culture apparentemente tanto lontane dalla propria condividano gli stessi
interrogativi sulla vita e sulla morte, le stesse paure, gli stessi desideri,
gli stessi concetti di bene e di male, anche se con delle varianti in base al
contesto in cui vengono elaborati.
Il
legame stretto tra la fiaba e la fantasia stimola l’avvicinamento alla L2
attraverso l’emozione, comportando l’assimilazione profonda delle strutture
linguistiche e l’acquisizione duratura di queste.
Osservazioni
Abbiamo
ascoltato con grande interesse il racconto dell’esperienza di “Lingue senza
frontiere”: entrare in contatto con i principi e i metodi proposti,
infatti, ci ha stimolato ad un impegno
sempre maggiore verso l’insegnamento delle lingue che non deve essere mai
disgiunto dall’educazione interculturale.
L’Associazione
invita a valorizzare la molteplicità delle culture, delle visioni del mondo,
delle tradizioni, fornendo uno stimolo ad un dialogo produttivo per un nuovo
fare scuola, aperto ad una pluralità di punti di vista e ad un pensiero
critico, divergente.
In
questo modo l’intercultura non resta solo un concetto teorico, ma assume il
significato di dare gli stessi strumenti a tutti, affinché ognuno possa agire
consapevolmente nella società, senza avere strade precluse nelle relazioni,
nello studio, nel lavoro.
Conosciuta,
sconosciutissima Africa
La
nostra tutor supervisore, Carmelina Rotundo, ha fornito a noi studenti del
tirocinio, durante gli incontri, un
opuscolo sull’Africa, invitandoci a riflettere e conoscere questa
sconosciutissima Terra.
Il mondo
è pervaso da realtà, popoli, persone differenti, tutte, le une dalle altre,
uniche nel loro genere.
Continenti
e Paesi dovrebbero incontrarsi e sviluppare un dialogo, una
cooperazione costruttiva e produttiva, ma, purtroppo, ancora in
molti pensano di valere più di altri, radicati nella loro convinzione,
difficile da cancellare, di vantare una superiorità culturale e storica mai
cancellata.
Facendo
credere anche agli altri questa errata convinzione, “quei tutti” ritengono di
essere i “civili”, superiori a “quei barbari Africani” che, invece, devono
essere civilizzati.
Quella cooperazione
internazionale di cui si va parlando spesso, riempiendo talk-show e
interviste, è solo funzionale agli interessi dei potenti; «Aiutiamo l’Africa»: è questo lo slogan che spesso viene recitato,
ma con tre parole viene, invece, esaltata la pretesa di qualche “occidentale”
della propria superiorità; così, l’aiuto che il mondo sviluppato elargisce si
materializza solo in beni di prima necessità, volti ad affrontare una sopravvivenza
effimera, che rimanda di pochi giorni il problema della morte di ciascuno, che
in quelle terre deve viverci davvero e che dovrebbe risolvere i problemi
presenti, attivamente, imparando a produrre e far da sé per intraprendere un
cammino di sviluppo e collaborazione.
Ma come
si può parlare, allora, di “intercultura”
verso una forma di pluralità definita, tante volte, inferiore a noi e che,
fondamentalmente, per “quei grandi” è più comodo avere così, per soggiogarla e
sottometterla?
Molti,
troppi, vedono un’Africa con gli occhi del pregiudizio, un’immagine
stereotipata che non rientra, invece, minimamente in quei valori di
integrazione di cui ci facciamo portatori.
Studiamo
per essere futuri maestri, pronti, attenti a stimolare la curiosità e riconoscere
nella diversità, le risorse da sviluppare; è in tal maniera che dobbiamo
avvicinarci a questo Mondo, farlo conoscere, usare gli occhi dell’amore, per
aiutare, chi non vede, a rendere l’Universo un posto migliore di quello che
adesso stiamo vivendo.
Aiutare
chi non sa, a conoscere, sarebbe un primo passo, infatti, per esempio, non
tutti hanno cognizione che, proprio in quei Paesi ritenuti “inferiori”, forme
di collaborazione e cooperazione esistevano già tra diverse etnie in passato,
anticipando, in tal modo, qualsiasi azione o intervento del mondo sviluppato
volto a questo; loro erano già un passo avanti a noi, l’Africa era in grado di
camminare da sola, e invece, il suo cammino è stato interrotto dalla tratta
degli schiavi e dalla colonizzazione che ha impedito il suo benessere già nel
XV secolo.
Ancora
oggi, “Lei”, come può, si mostra
forte, continua a resistere alla globalizzazione, mette al centro la vita,
rifiutando un’economia che “cosifica” la persona rendendola funzionale al
mercato. Questo Paese avrebbe solo bisogno di essere riconosciuto in quanto
tale, gli occidentali dovrebbero dare, in primis, fiducia e rispetto a una
terra a cui noi dovremmo chiedere aiuto, un sostegno per imparare la
convivialità, l’unione di molti popoli che, solo non per nostra mano, conoscono
denaro e antagonismo.
Dobbiamo
riconoscere che «l’Africa ha un cuore»,
che è il Cuore del mondo, il CONTINENTE MADRE, la culla della civiltà, da lei
siamo nati e ci siamo evoluti, dovremmo riconoscere la sua storia, così tutti
vedrebbero potenzialità, peculiarità e capacità che noi non abbiamo perché
accecati dagli interessi e dalle bramosie di ogni genere.
Intellettuali
e politici, per primi, hanno voluto, in Africa, partiti unici e forti,
favorendo l’uniformità e combattendo il pluralismo, forza della democrazia; i
dirigenti hanno, così, combattuto il tribalismo, ritenendolo fonte di ogni
conflitto, nato dalla povertà, dall’ineguaglianza nella vita pubblica e
privata, dalla insoddisfazione verso governi assenti e disinteressati alla terra,
rendendo colpevoli le persone che si organizzano e che strenuamente lottano per
operare un cambiamento per una mentalità nuova, per sviluppare l’Africa, e non
per salvarla passivamente impedendole di costruirsi da sola.
Esempi
di grande civiltà ne esistono, e tutti devono imparare da questi; uno fra
tutti, la Carta di Kurukan Fuga,
redatta dall’imperatore Soundjata Keita, fondatore dell’impero del Mali, che
favorisce convivialità, previene i conflitti ed è esempio di grande civiltà a
cui noi non siamo abituati.
Il
futuro è una speranza importante per l’Africa e per il mondo intero:
partenariato fra donne e uomini, l’accettazione e il riconoscimento di ciò che
è stato e di ciò che è, abbattimento della corruzione, miglioramento di
qualsiasi forma di lavoro e rispetto per la donna, in quei luoghi, troppe
volte, abusata e uccisa, sono gli interventi che dovrebbero essere realizzati,
senza bugie e giochi di potere; occorre un cambiamento mentale e perché non iniziare anche noi in quanto futuri
maestri? Diffondere una sensibilità per un mondo che deve mutare ed
essere migliore per i nostri figli, i nostri studenti, uomini e donne di
domani.
Normativa
La
Convenzione sui diritti dell'infanzia rappresenta lo strumento
normativo internazionale più importante e completo in materia di promozione e
tutela dei diritti dell'infanzia. La Convenzione è stata approvata
dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre del 1989
a New York ed è entrata in vigore il 2 settembre 1990.
L'Italia ha ratificato la
Convenzione il 27 maggio 1991 con la
legge n. 176 e a
tutt’oggi 193 Stati, un numero addirittura superiore a quello degli Stati
membri dell'ONU, sono parte della Convenzione. Gli articoli 28 e 29 della
Convenzione sanciscono il diritto all’istruzione.
Diritto
all'istruzione in Italia
a)
L’istruzione è un diritto di ogni bambino (quindi anche di quello che non ha la
cittadinanza italiana);
b) l’istruzione scolastica è parallelamente un dovere che
gli adulti devono rispettare e tutelare, in particolare per quanto riguarda la
scuola dell’obbligo;
c) tutti devono
poter contare su pari opportunità in materia di accesso, di riuscita scolastica
e di orientamento.
Il riferimento
alle pari opportunità supporta la possibilità di alcune azioni specifiche
(“politiche selettive”) per i minori immigrati, aventi come obiettivo
l’innalzamento del livello di parità e la riduzione dei rischi di esclusione.
L'inserimento/accoglienza nella classe
Il momento
dell’accoglienza e del primo inserimento risulta cruciale ai fini del processo
di integrazione perché è in questa fase che si pongono le basi per un percorso
scolastico positivo. In misura maggiore esso si colloca all’inizio dell’anno
scolastico, ma, per una parte degli alunni stranieri (circa un quinto delle
presenze), l’inserimento nella scuola italiana avviene in corso d’anno. Anche
per questa ragione, il “copione largo” (chi fa che cosa) che regola questo
momento importante deve essere definito e condiviso nella scuola e fra i
docenti a partire innanzi tutto dalle norme che regolano l’iscrizione.
Il Decreto
Legislativo del 25 luglio 1998, n. 286 “Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero” riunisce e coordina le varie disposizioni in vigore in materia con la
stessa Legge n. 40/98, ponendo, anche in questo caso, particolare attenzione
sull’effettivo esercizio del diritto allo studio, sugli aspetti organizzativi
della scuola, sull’insegnamento dell’italiano come seconda lingua, sul
mantenimento della lingua e della cultura di origine, sulla formazione dei
docenti e sull’integrazione sociale. Tali principi sono garantiti nei confronti
di tutti i minori stranieri, indipendentemente dalla loro posizione giuridica,
così come espressamente previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica
del 31 agosto 1999, n. 394, Regolamento recante norme di attuazione del testo
unico delle disposizioni concernenti le disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero. In particolare, si legge che l’iscrizione
scolastica può avvenire in qualunque momento dell’anno e che spetta al Collegio
dei docenti formulare proposte per la ripartizione degli alunni stranieri nelle
classi, evitando la costituzione di sezioni in cui la loro presenza sia
predominante, e definire, in relazione ai livelli di competenza dei singoli
alunni, il necessario adattamento dei programmi di insegnamento.
Educazione
interculturale
Di fronte
all’emergenza del fenomeno migratorio, l’educazione interculturale è
individuata inizialmente come risposta ai problemi degli alunni
stranieri/immigrati: in particolare, si è inteso disciplinare l’accesso
generalizzato al diritto allo studio, l’apprendimento della lingua italiana e
la valorizzazione della lingua e cultura d’origine (v. C.M. 8/9/1989, n. 301,
Inserimento degli alunni stranieri nella scuola dell’obbligo. Promozione e
coordinamento delle iniziative per l’esercizio del diritto allo studio). In
seguito si afferma il principio del coinvolgimento degli alunni italiani in un
rapporto interattivo con gli alunni stranieri/immigrati, in funzione del
reciproco arricchimento (v. C.M. 22/7/1990, n. 205, La scuola dell’obbligo e
gli alunni stranieri. L’educazione interculturale).
Questa
disposizione introduce per la prima volta il concetto di educazione
interculturale, intesa come la forma più alta e globale di prevenzione e
contrasto del razzismo e di ogni forma di intolleranza. Gli interventi
didattici, anche in assenza di alunni stranieri, devono tendere a prevenire il
formarsi di stereotipi nei confronti di persone e culture.
È utile, poi,
richiamare la sottolineatura, contenuta nella legge sull’immigrazione n. 40 del
6 marzo 1998, art. 36, sul valore organizzativo, le istituzioni scolastiche
realizzano valorizzazione delle differenze linguistico-culturali e alla
promozione di iniziative di accoglienza e di scambi.
L'azione dei
docenti
Azioni di
sostegno nei confronti del personale docente impegnato nelle scuole a forte
processo immigratorio sono definite dalla C.M. n. 155/2001, attuativa degli articoli
5 e 29 del CCNL del comparto scuola: fondi aggiuntivi per retribuire le
attività di insegnamento vengono assegnati alle scuole con una percentuale di
alunni stranieri e nomadi superiore al 10% degli iscritti. La C.M. n. 160/2001
è invece finalizzata all’attivazione di corsi ed iniziative di formazione per
minori stranieri e per le loro famiglie, tesi a realizzare concretamente il
diritto allo studio, in un contesto in cui la comunità scolastica accolga le
differenze linguistiche e culturali come valore da porre a fondamento del
rispetto reciproco e dello scambio tra le culture. La Pronuncia del CNPI del
20/12/2005 (Problematiche interculturali) è un documento di analisi generale
sul ruolo della scuola nella società multiculturale.
La C.M. n. 24,
del 1 marzo 2006 (Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni
stranieri) fornisce un quadro riassuntivo di indicazioni per l’organizzazione
di misure volte all’ inserimento degli alunni stranieri.
In occasione
della pubblicazione della circolare n. 28 del 15 marzo 2007 sugli esami di
licenza al termine del primo ciclo di istruzione, il ministero, al paragrafo n.
6 del capitolo relativo allo “Svolgimento dell’esame di Stato”, ha raccomandato
alle commissioni esaminatrici di riservare particolare attenzione alla
situazione degli alunni stranieri in condizioni di criticità per l’inadeguata
conoscenza della lingua italiana.
Conclusioni
La
storia insegna che nessuna società è mai uscita dal sottosviluppo senza un cospicuo
investimento nel proprio capitale umano. Per questo l'istruzione è
considerata un diritto umano fondamentale e uno dei più importanti fra gli otto
Obiettivi di Sviluppo del Millennio sanciti nel 2000
dall'Assemblea Generale dell'ONU.
CONTINUITA'
Etimologia
La parola continuità deriva dall’aggettivo continuo
(“continuus”, dal latino “continere”= tenere con), che significa:
ininterrotto, compatto, unito, perpetuo, incessante.
Il continuo, inteso come sostantivo maschile, è riferito invece
a quel servo che, favorito dal signore, gli garantiva protezione e talora anche
vendetta.
Continuità verticale e orizzontale
Cos’è
la continuità?
Un
percorso senza rotture, che prevede la presenza della stessa figura all’interno
dell’ambiente scolastico.
Distinguiamo
una continuità verticale e una continuità orizzontale.
La
prima si attua tra diversi ordini di scuola: l'educatore deve considerare
quello che è già acquisito come mezzo e strumento per aprire nuovi campi, un
percorso formativo continuo e unitario.
In
particolare, attraverso:
- un raccordo
culturale, favorendo cioè momenti di formazione comune attraverso progetti
condivisi;
- un raccordo curricolare, che prevede:
- la conoscenza dei rispettivi programmi (scuola dell'infanzia, primaria e media);
- il raccordo tra le varie fasi di programmazione degli anni iniziali e terminali dei diversi gradi di istruzione;
- la definizione di obiettivi di transizione che offrano al bambino l'integrazione delle esperienze;
- la definizione di modalità organizzative per attuare momenti comuni di progettazione/verifica nel team integrato.
- un raccordo metodologico, che prevede
l'utilizzazione della commissione continuità come canale preferenziale per
collaborare con gli insegnanti direttamente coinvolti nella continuità tra
ordini di scuola.
Il
gruppo docente può così confrontarsi sul:
- metodo,
- sulla progettazione,
- sulla composizione dei gruppi studenti,
- sulla fruizione degli spazi,
- sul ruolo degli insegnanti.
La
seconda si realizza invece tra scuola, famiglia e territorio dal punto di
vista: culturale, ambientale,
sociale.
Ci si
rapporta con l’ambiente esterno per disporre, ad esempio, di una
palestra per gli esercizi motori o per svolgere un laboratorio presentato dai
musei del territorio.
La
scuola deve porsi in continuità con le esperienze che i ragazzi quotidianamente
realizzano nel loro ambiente di vita.
La
continuità sottolinea il diritto di ogni bambino e di ogni ragazzo a un
percorso scolastico unitario, organico e completo, ponendosi l’obiettivo di attenuare le
difficoltà che spesso si presentano nel passaggio tra i diversi ordini di
scuola; per questo richiede un percorso coerente che valorizzi le competenze
già acquisite dai bambini e dai ragazzi e riconosca la specificità e la pari
dignità educativa di ogni scuola.
Rappresentazioni
e riflessioni
Noi studenti di Scienze della Formazione
Primaria, con la nostra tutor, abbiamo deciso di rappresentare la continuità
con l'intersezione di due cerchi:
![]() |
INTERNO scuola ESTERNO
VERTICALE
TEMPO
ORIZZONTALE SPAZIO
Riflettendo
sul significato di continuità verticale ed orizzontale, abbiamo ripreso le
tematiche dell’anno precedente, riguardanti il tempo e lo spazio; il tempo
lo abbiamo associato alla continuità verticale, insistendo
sull’importanza e la centralità rivestita dall’alunno all’interno delle
istituzioni scolastiche, che lo seguiranno lungo il percorso di formazione, dal
nido fino all’università.
Abbiamo
associato al concetto di continuità orizzontale la tematica dello spazio,
pensando all’articolazione di progetti che hanno luogo al di fuori della scuola
e che riguardano enti pubblici e privati e le famiglie degli alunni, permettendo
alla scuola di legittimare la propria posizione all’interno della realtà
sociale di appartenenza: la scuola non può essere considerata un’isola, ma
appartiene alla cultura e alla società in cui nasce e si sviluppa, e con lei
gli attori che ne fanno parte.
OTTICA UNITARIA
UNITA’ CORPO E MENTE
AFFETTI
COGNIZIONE
EMOTIVITA’
RAZIONALITA’
Al
bambino va garantito un percorso continuo nella scuola.
“…Il
processo di sviluppo infantile, sebbene suddiviso o articolato in stadi e fasi
di maturazione è fondamentale per il processo unitario e continuo, che non
giustifica un sistema scolastico strutturato in gradi sconnessi ma che al
contrario necessita di un percorso formativo continuo…”
(G.
Franceschini, “Apprendere, insegnare, dirigere nella scuola riformata. Aspetti
metodologici e profili professionali.” Ed. ETS 2002)
Acrostico
Come
Organizzare
Nel
Tempo
Il
Nodo di
Unitarietà
Interdisciplinare
Tra
Aree
|
CONTINUITA’
|
|
|||||
|
|||||
|
|||||
E’
fondamentale che ci sia una continuità tra i vari ordini di scuola, “continuare” significa infatti costruire e
non buttare via tutto ciò che si è fatto prima.
Gli insegnanti, con il confronto, la
formazione reciproca, la messa in discussione e la non chiusura saranno
coinvolti direttamente in questa costruzione.
Organi
collegiali deputati alla promozione della continuità:
CD collegio
docenti
CID consiglio
interclasse solo docenti
CC consiglio
di classe solo docenti
GIG consiglio
di intersezione con i genitori
CCG consiglio
di classe con i genitori
PD
programmazione
per discipline
RM riunione
per materie
COLGE colloqui
bimestrali con i genitori
ASS assemblea genitori di
classe/sezione
COLL.
colloqui
individuali genitori
CONS. DOC. consegna
documento valutazione
I Progetti Continuità pongono come base la costruzione
dell’autonomia e dell’identità di ogni singolo alunno e la scuola deve tendere
a sviluppare l’iniziativa, il processo decisionale e la responsabilità
personale di ciascuno.
È
necessario in tali progetti, dare particolare importanza all’accoglienza intesa come condivisione di stili e modalità per favorire la
continuità educativa.
L’accoglienza
è alla base dello star bene a scuola, è il punto di partenza per la costruzione
di relazioni e di rapporti interpersonali che influiscono positivamente sulla
sfera motivazionale e possono arginare situazioni di disagio, creando un legame
molto forte tra docenti, alunni e genitori.
I
progetti riguardano:
- la continuità tra il nido e la scuola dell’infanzia;
- la continuità tra la scuola dell’infanzia e la scuola primaria;
- la continuità tra la scuola primaria e la secondaria di primo grado;
- la continuità tra la secondaria di primo grado e la secondaria di secondo grado.
Si
realizzano attraverso attività didattiche comuni, percorsi specifici di
orientamento, riunioni tra docenti, incontri con i genitori, prove d’ingresso e
passaggio di informazioni sugli alunni, open
day.
Da
sottolineare anche l’importanza di uno strumento meno diffuso ma presente in
alcune scuole secondarie di primo grado: il consiglio degli studenti, che è un
organo elettivo formato da un determinato numero di alunni eletti dai compagni
di classe, i quali incontrano il dirigente scolastico ed alcuni docenti, per un
confronto sui temi più salienti e contestualmente più urgenti.
Le
sedute del Consiglio rappresentano un preciso “ordine del giorno” e, al termine
di ogni incontro, viene redatto un verbale che viene poi divulgato a tutte le
classi.
La
continuità educativa, vista come una proprietà dell’essere e del conoscere di
ogni persona, dovrebbe essere considerata un principio fondamentale di tutte le
istituzioni scolastiche, con l’obiettivo di accompagnare ciascuno nel corso del
proprio percorso formativo; un itinerario che tenga conto del processo di
sviluppo infantile che, sebbene articolato in stadi di maturazione, si presenta
fondamentalmente come un processo continuo e unitario.
Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, a
lungo si è dibattuto circa l’esigenza di una continuità educativa. Per lungo
tempo, a causa della nascita in epoche molto diverse tra loro, i vari settori
dell’istruzione scolastica hanno operato in maniera slegata l’uno dall’altro,
con proprie regole, con eccessive differenze di metodo, di scopi e di pensiero
e con personale docente specializzato, portando ad una vera e propria
discontinuità del sistema formativo, evidente nei molteplici casi di ripetenze
ed abbandoni negli anni di passaggio da un ordine all’altro.
La
discontinuità è dovuta alla difficoltà, da parte dei docenti dei vari
ordini di scuola, a collaborare tra loro, anche perché provenienti da sistemi
formativi separati e differenziati; e dai cambiamenti radicali che i programmi
scolastici subiscono da un ordine scolastico all’altro.
La continuità educativa deve essere
innanzitutto una continuità di idee, un’unitarietà pedagogica di fondo
necessaria a supportare un comune
discorso operativo.
Se già
il vocabolo “continuità” era stato utilizzato nei programmi della scuola media
inferiore del 1979 e nei programmi della scuola primaria del 1985, l’esigenza
di una concreta applicazione della continuità educativa si cominciò ad
avvertire nel 1988, legandosi alla questione dell’integrazione dei soggetti
portatori di handicap, come si legge nella
C.M. n. 1 del
04/01/1988:
“La continuità del processo educativo,
fattore rilevante per la positività dell’esperienza scolastica di ogni alunno,
per il bambino portatore di handicap diviene condizione di garanzia di
interventi didattici che non procurino difficoltà nei passaggi dalla scuola
materna alla scuola elementare e da questa alla scuola media”.
E’
dall’approvazione di questo decreto che la continuità passa ufficialmente da
principio e valore pedagogicamente fondato, a processo operativo concreto.
Modalità operative di raccordo
TEMPI
|
CHI/CON CHI?
|
OGGETTO DEL
RACCORDO
|
|
Periodo
immediatamente successivo alle prescrizioni
|
·
Capi d’istituto
·
Insegnanti di classe e di sostegno dei vari
ordini
·
Operatori dei servizi socio-sanitari
·
Genitori
|
·
Primo esame della nuova situazione ambientale
e valutazione delle eventuali difficoltà riferite all’integrazione.
|
|
Al
termine dell’anno scolastico che segna il passaggio ad un nuovo ordine di
scuola
|
·
Gli insegnanti dell’ordine precedente agli
insegnanti dell’ordine di scuola successivo.
|
·
Notizie sugli interventi realizzati;
·
La diagnosi funzionale;
·
Il P.E.I.;
·
Relazioni dell’ins. di sostegno e degli ins.
di classe;
·
Schede di valutazione;
·
Documentazione utile a favorire una iniziale
conoscenza dell’iter scolastico del bambino e
del
livello di sviluppo raggiunto
|
|
All’inizio dell’anno successivo
|
1.
Capi d’Istituto;
2.
Ins. di classe e di sostegno;
operatori dei servizi socio-sanitari.
|
·
Per informazioni analitiche sulla personalità
dell’alunno, in particolare con riferimento alle difficoltà di apprendimento,
alle condizioni affettivo-emotive, ai comportamenti ai fini della formulazione del nuovo P.E.I.
|
|
Durante l’anno scolastico.
|
Ø
D’intesa tra i due capi d’Istituto;
secondo le modalità indicate dai collegi dei docenti.
|
Ø
Partecipazione dell’insegnante di sostegno
della scuola di provenienza dell’alunno alla programmazione del nuovo P.E.I.
|
|
All’inizio dell’anno scolastico successivo e per un
periodo non superiore a 2/3 mesi.
|
Ø
L’ins. di sostegno che ha seguito il bambino
nel precedente ordine di scuola può “accompagnare” l’alunno nella nuova
struttura.
|
·
Quantificazione esatta dell’impegno orario
strettamente necessario;
·
In collaborazione con gli ins. di classe e di
sostegno del nuovo gruppo-classe;
·
Sulla base di motivata relazione che documenti
l’eccezionalità del caso;
·
D’intesa
tra i due collegi dei docenti;
·
Con richiesta al Provv.Studi da parte del Capo
d’ Istituto che accoglierà l’alunno;
previa autorizzazione del Provveditorato agli Studi.
|
La circolare
Ministeriale 16 novembre 1992, n. 339
Con
oggetto: Continuità educativa.
Trasmissione del Decreto Ministeriale applicativo dell'art. 2 della Legge 5
giugno 1990, n. 148 definisce dei punti essenziali per comprendere meglio cosa
è la continuità educativa in ambito scolastico.
L'istanza
della continuità educativa, già affermata nei programmi della scuola media
(D.M. 9 febbraio 1979, Premessa generale, I parte, 3 d.), nei programmi della
scuola elementare (D.P.R. 12 febbraio 1985, n. 104, Premessa generale, I parte)
e negli orientamenti per la scuola materna (D.M. 3 giugno 1991, II parte, 4), è
stata recepita dalla Legge 5 giugno 1990, n. 148, di riforma della scuola elementare,
come normativa che investe l'intero sistema educativo di base. Tale legge
afferma, all'art. 1 nelle finalità generali, che "la scuola elementare,
anche mediante forme di raccordo pedagogico, curricolare e organizzativo con la
scuola materna e con la scuola media, contribuisce a realizzare la continuità
del processo educativo".
L'art.
2 della legge citata ha previsto l'emanazione di un Decreto Ministeriale per la
definizione, nel rispetto delle competenze degli organi della scuola, delle
forme e delle modalità del raccordo.
Ragioni e obiettivi della continuità
La
continuità nasce dall'esigenza principale di garantire il diritto dell'alunno
ad un percorso formativo organico e completo, che mira a promuovere uno
sviluppo articolato e multidimensionale del soggetto il quale, pur nei
cambiamenti evolutivi e nelle diverse istituzioni scolastiche, costruisce così
la sua particolare identità.
Una
corretta azione educativa, infatti, richiede un progetto formativo continuo.
Essa si propone anche di prevenire le difficoltà che sovente si riscontrano,
specie nei passaggi tra i diversi ordini di scuola, e che spesso sono causa di
fenomeni come quello dell'abbandono scolastico, prevedendo opportune forme di
coordinamento che rispettino, tuttavia, le differenziazioni proprie di ciascuna
scuola.
Continuità
del processo educativo non significa, infatti, né uniformità né mancanza di
cambiamento; consiste piuttosto nel considerare il percorso formativo secondo
una logica di sviluppo coerente, che valorizzi le competenze già acquisite
dall'alunno e riconosca la specificità e la pari dignità educativa dell'azione
di ciascuna scuola nella dinamica della diversità dei loro ruoli e funzioni.
Nella
scuola materna, come primo grado del sistema scolastico, si realizza il diritto
dell'infanzia ad una formazione integrale attraverso "un'equilibrata
maturazione e organizzazione delle componenti cognitive, affettive, sociali e
morali della personalità". Alla prima "storia" scolastica del
bambino, si collega la scuola elementare come ambiente per l'alfabetizzazione
culturale e per l'educazione consapevole alla convivenza democratica. A sua
volta la scuola media, come affermano i programmi del 1979, "persegue con
sviluppi originali, conformi alla sua natura di scuola secondaria di primo
grado, il raggiungimento di una preparazione di base e pone le premesse per
l'ulteriore educazione permanente e ricorrente".
Analogamente,
se si considerano le finalità generali, la prima costruzione dell'identità,
dell'autonomia e della competenza, che caratterizza la scuola materna, è poi
ripresa dalla scuola elementare che, "favorendo l'iniziativa,
l'autodecisione, la responsabilità personale degli alunni", pone le basi
per un esercizio consapevole delle capacità cognitive e sociali. Su tali basi
si definisce il ruolo della scuola media come sede in cui le discipline di
studio e le attività didattiche sono anche elementi di specificazione e di
auto-orientamento per la costruzione di capacità di scelta e di decisione
basate su di una ben fondata e "verificata conoscenza di sé".
Il tema
della continuità, oltre che nei documenti programmatici sopra richiamati, era
già stato posto all'attenzione della scuola dalla legge n. 517/77 attraverso
una considerazione congiunta dei problemi degli alunni portatori di handicap
nella scuola elementare e media; prospettiva ribadita dalla C.M. n. 1/1988 ed
ulteriormente sottolineata dalla recente legge n. 104/92, nonché dalla C.M. n.
400/1991 sulle iscrizioni che istituisce il "foglio notizie alunno",
recentemente modificato (C.M. n. 289/1992).
Esso
richiede, altresì, ulteriori sviluppi, richiamati dagli Orientamenti '91 per la
scuola materna in riferimento all'esperienza educativa precedente, e
prospettati dalle linee di trasformazione e sperimentazione della scuola secondaria
superiore, il cui primo biennio dovrebbe configurarsi come ulteriore segmento
della scuola dell'obbligo.
Piani di intervento per promuovere la
continuità
Le
forme e le modalità del raccordo richiamate esplicitamente dall'art. 2 della
Legge n. 148/1990 comportano l'elaborazione di piani di intervento mirati a
promuovere la continuità, intesi come progettazione intenzionale ed organizzata
di "azioni positive" che garantiscano il raccordo tra le scuole e con
l'extrascuola. Tali piani devono trovare la loro necessaria collocazione
all'interno della più generale programmazione educativa e didattica, come
pratica unificante e qualificante per tutti gli ordini e gradi di scuola.
Questa, infatti, costituisce la sede in cui possono confluire comporsi le istanze
formative poste dalle diverse discipline e dai diversi gradi di scuola. Gli
ambiti di esercizio della continuità possono essere pertanto significativamente
realizzati, se vengono riportati ad un itinerario curricolare articolato,
organico e condiviso.
Coordinamento dei curricoli
A tale
scopo è innanzi tutto indispensabile una approfondita conoscenza reciproca dei
programmi nazionali dei diversi gradi di scuola, come base per azioni educative
coordinate, da conseguire anche attraverso esperienze comuni di formazione in
servizio.
Un vero
e proprio progetto di continuità curricolare comporta l'individuazione di
obiettivi, coordinati in senso longitudinale in relazione al progressivo
sviluppo dell'alunno, che già i programmi delle tre scuole evidenziano
chiaramente. Essi infatti sottolineano la preminenza dell'acquisizione di
abilità, oltre che di conoscenze, di strategie, di consapevolezze, di
comportamenti, all'interno di un'articolata gamma di aeree di conoscenza
denominate come campi di esperienza nella scuola materna, come ambiti
disciplinari emergenti gradualmente dal pre-disciplinare nella scuola
elementare, come discipline di studio nella scuola media. Tali aeree hanno in
ogni caso pari dignità formativa e si caratterizzano per quadri concettuali e
metodologici differenziati di cui è essenziale che siano consapevoli e
competenti tutti i docenti.
Per la
realizzazione della continuità educativa hanno, poi, un'importanza cruciale, la
conoscenza reciproca, la problematizzazione e la progressiva armonizzazione
delle concezioni e strategie didattiche, degli stili educativi e delle pratiche
d'insegnamento-apprendimento. Pur nelle differenziazioni legate alla
progressiva acquisizione di conoscenze, capacità, comportamenti e
consapevolezze, l'azione didattica, all'interno di un contesto di relazioni
sociali facilitanti e di un ambiente di apprendimento organizzato
intenzionalmente dagli insegnanti, deve porre le condizioni affinché il
soggetto sia sempre costruttore attivo delle sue competenze, anche grazie a
forma di responsabilizzazione personale via via crescenti.
Una
particolare attenzione va dedicata al coordinamento dei curricoli degli anni
iniziali e terminali in modo da superare recriminazioni, malintesi, e delusioni
degli insegnanti dei diversi gradi con ripercussioni negative sul rendimento
degli alunni, che spesso già vivono con ansia e difficoltà il momento del
passaggio al grado scolastico successivo. Pertanto, nell’ambito del previsto
coordinamento dei curricoli, si potranno realizzare, a titolo esemplificativo:
a)
conoscenza dei programmi reciproci,
b)
identificazione di percorsi curricolari continui relativamente alle aeree di
intervento educativo comune (ad esempio, l'acquisizione dei sistemi di
rappresentazione per lo snodo dei 5-6 anni, il passaggio ad una organizzazione
disciplinare più definita e ad una maggiore autonomia di studio in particolare
tra i 10 e gli 11 anni);
c)
momenti di collaborazione incrociata, in classe, degli insegnanti delle due
scuole sulla base di specifici progetti;
d)
incontri e attività in comune tra gli alunni delle classi degli anni
"ponte" insieme ai loro insegnanti.
Conoscenza del percorso formativo
dell'alunno
Un
significato strategico assume, ai fini della continuità, l'adeguata
conoscenza-documentazione del percorso formativo dell'alunno.
In
questa prospettiva vanno innanzi tutto collocate le informazioni sull'alunno ed
il contesto in cui la scuola opera, finalizzato all’elaborazione di curricoli
flessibili che possano rispondere in modo mirato alla domanda formativa di
ciascun bambino/ragazzo. Si possono richiedere ai genitori, già al momento
dell'iscrizione, proprie osservazioni, oltre che indicazioni sui "punti di
forza" -soprattutto- o di difficoltà di cui la scuola dovrà tener conto
nel proprio intervento.
E'
evidente che, il rapporto di scambio e comunicazione con le famiglie e con le
comunità, è particolarmente importante per gli alunni appartenenti a culture
diverse ed è anche centrale per i soggetti in situazione di handicap o di
svantaggio.
Queste
informazioni saranno collegate ai "dati" sull'alunno che comprendono,
oltre a quelli di tipo amministrativo, gli elementi informativi sul rendimento
scolastico, la documentazione relativa agli accertamenti e alle osservazioni
sistematiche dei docenti, agli eventuali interventi personalizzati ed ai
relativi esiti.
Fascicolo personale dell'allievo
Allo
scopo di dare adeguata documentazione del percorso formativo di ogni soggetto,
il decreto istituisce il fascicolo personale dell'allievo. Questo strumento, le
cui forme concrete saranno definite nell'ambito dei piani di intervento
finalizzati a promuovere la continuità, consiste in un "raccoglitore"
che conterrà i dati di tipo amministrativo (anagrafici, sanitari, scolastici,
il foglio notizie), i documenti di valutazione, la documentazione specifica per
gli alunni portatori di handicap (diagnosi funzionale, progetto educativo
personalizzato), nonché ogni altro elemento significativo di conoscenza
dell'alunno, di documentazione della sua esperienza scolastica, acquisito anche
in collaborazione con la famiglia. Il fascicolo, quindi, è una ordinata e
razionale raccolta di documentazione, accompagnata da una sintesi globale
elaborata collegialmente al termine di ogni grado scolastico, utile per la
migliore conoscenza di tutti gli alunni ed in specifico di quelli in condizione
di svantaggio che hanno seguito particolari percorsi formativi come ad esempio
extracomunitari e migranti.
L'istituzione
scolastica che accoglie l'alunno, deve richiedere alla scuola di provenienza il
fascicolo personale, la cui trasmissione costituisce obbligo per quest'ultima e
deve avvenire in tempo utile per la predisposizione degli adempimenti connessi
con l'avvio dell'anno scolastico.
Infatti,
questa base informativa è necessaria anche ai fini della formazione delle
classi iniziali, in quanto la conoscenza della "storia" dell'alunno
nel grado scolastico precedente è essenziale per tener conto dei livelli di
competenza raggiunti, delle relazioni sociali già costruite, dei fattori socio-culturali
di sfondo. Questi aspetti vanno tenuti in considerazione e combinati in modo da
portare alla costituzione di classi a eterogeneità interna ben calibrata.
Le
informazioni e i dati di cui ora si è detto, inoltre, aiutano gli operatori dei
vari segmenti scolastici nell'impostare una progettazione curricolare che non
azzeri le esperienze già compiute e le competenze acquisite già raggiunte dagli
alunni, ma che valorizzi le acquisizioni anche nella loro variabilità intra e
interindividuale.
Continuità orizzontale
I
rapporti che ci sono tra scuola, famiglie, enti e situazioni territoriali, e in
particolare quelle degli Enti Locali e le Unità Sanitarie Locali, danno luogo a
una sorta di ecosistema formativo che porta l'esigenza si assicurare la
continuità educativa, la così detta continuità
orizzontale, tra i diversi ambienti di vita e di formazione dell'alunno.
In questa prospettiva i rapporti instaurati con le
famiglie sono di grande importanza in quanto sono un'occasione di partecipare
in modo diretto e come fonte di informazione utile per la programmazione
scolastica. Assumono un certo rilievo i colloqui scuola-famiglia nel momento
del primo ingresso, da parte del bambino, in un grado scolastico; per lo stesso
motivo quando l'alunno passa da un grado ad un altro della scuola, bisognerebbe
promuovere degli incontri “triangolari” tra genitori e docenti dei gradi
contigui.
Bisogna anche tener presente che i nuovi
insediamenti e le ristrutturazioni dovrebbero muoversi nella direzione
dell'integrazione in strutture e servizi per la scuola di diverso grado,
infatti bisogna considerare e favorire l'utilizzo di edifici e attrezzature
scolastiche fuori dall'orario delle lezioni per tutte quelle attività che la
scuola deve promuovere come centro culturale e sociale, come già è sottolineato
nella legge n. 517/1977.
Riferendosi anche quanto è stato detto nella legge
n. 104/1992, si porrà anche l'esigenza di creare interventi congiunti e
coordinati per un progetto che risponda all'esigenza di bisogni formativi,
anche attraverso la “sottoscrizione di intese”, prevista dalla C.M. n.
258/1983, tra i soggetti istituzionali interessati per “perseguire
unitariamente in favore di tutti gli alunni e in modo particolare per i
portatori di handicap”, interventi che servano a prevenire il disadattamento e
l'emarginazione e la piena realizzazione del diritto allo studio. Questo pone
in rilievo l'importanza del ruolo delle Unità Sanitarie Locali e del servizio
psicopedagogico, come si evince nella C.M. n. 1/1988 in cui sono state anticipate
molte indicazioni che, con la D.M. art. 2 della legge n. 148/1990, assumono una
rinnovata attualità.
A partire dall'a.s. 1987/88 sono stati attuati dei
“progetti integrati di area” che si basano sull'integrazione delle competenze
dei diversi soggetti per riuscire a realizzare il diritto allo studio.
Sarà evidente come tutte queste indicazioni potranno
trovare collocazione organica nei piani di intervento per promuovere sia la continuità verticale, tra i diversi
gradi, sia la continuità orizzontale,
tra scuola e territorio.
Modalità di attuazione
La continuità è promossa attraverso il piano di
intervento inserito all'interno della programmazione dalla quale si sviluppa il
processo di attuazione delle “azioni positive” di raccordo tra le diverse
scuole.
Fasi operative
Il decreto prevede tre momenti organizzativi:
1) Si
riferisce agli “appositi incontri” effettuati dai dirigenti scolastici delle
diverse scuole che insistono sullo stesso territorio, con il fine di operare
una ricognizione dei problemi specifici posti dall'istanza della continuità e
individuare quelle scuole che sono interessate ad elaborare dei progetti comuni
sulla continuità. Molteplici possono essere i temi da prendere in
considerazione, ad esempio: approfondimento della conoscenza del contesto
socio-culturale; sintonizzazione delle metodologie didattiche; strategie di
insegnamento-apprendimento; modalità di verifica e valutazione...ecc. E'
importante che le scuole costruiscano dei progetti che tengano in
considerazione le diverse esigenze delle situazioni socio-culturali in cui
operano, con il fine di creare dei collegamenti con le varie realtà culturali,
ambientali e sociali che sono presenti nel territorio. Ed è per questo che sarà
di grande importanza instaurare dei rapporti con le famiglie, comunità, risorse
offerte dall'extrascuola, sulla base della rilevazione dei bisogni e
dell'individuazione delle potenzialità. Come suggerisce anche la C.M. n.
240/1991, relativa al Progetto Ragazzi 2000, bisogna considerare gli stessi
alunni come risorse nella promozione di una continuità che implica anche
solidarietà fra ragazzi di età e di condizioni diverse. Questo lavoro
progettuale comune permetterà di collocare in tempi adeguati e di finalizzare
meglio esperienze di rapporto scuola-extrascuola, evitando delle ripetizioni o
sovrapposizioni.
2) In
questo momento ogni Collegio dei docenti delle scuole,individuato e impegnato a
designare quei docenti, di solito tre per ogni grado scolastico, dovrà poi
costituire il “gruppo di lavoro unitario per la continuità”. Questo gruppo
formulerà delle proposte per i piani di intervento, tenendo in considerazione
quanto detto nell'art. 2 del decreto, e delle priorità individuate dai Capi di
istituti e segnalate dai genitori e organi collegiali. Le proposte verranno poi
sottoposte a ciascun collegio docenti per l'approvazione ed inserimento nella
programmazione. Il lavoro del gruppo è coordinato collegialmente dai capi di
istituto delle scuole interessate i quali dovranno provvedere a mantenere i
rapporti con gli Enti territoriali.
3) Oggi
questi collegi dei docenti hanno il compito di programmare i piani d’
intervento, realizzare le progettate “azioni positive” di raccordo, seguirne
l'andamento e lo sviluppo, verificando in modo periodico, durante il corso
dell'anno scolastico, la realizzazione delle intese e valutandone i risultati
in funzione della conseguente ri-progettazione in itinere.
Coordinamento
territoriale
Come è già stato sottolineato
nell'art. 5 del D.M., durante la fase di prima attuazione della nuova normativa
i Provveditori agli Studi avranno cura di farsi parte attiva nel promuovere i
primi incontri tra i capi di istituto che costituiscono il momento di avvio
dell'elaborazione dei piani di intervento. Inoltre si garantiscono il coordinamento
ed il superamento delle iniziative, avvalendosi della collaborazione degli
ispettori tecnici e dei distretti scolastici, e infine dei soggetti che sono
stati indicati nell’art. 5.
Un ruolo significativo soprattutto ai fini della
promozione della continuità, in particolare quella orizzontale, ce l'ha il
distretto scolastico, per via delle sue competenze istituzionali in materia di
dislocazione delle unità scolastiche, di organizzazione dei servizi
collaterali, del rapporto tra scuola e enti territoriali.
I Provveditori agli Studi cureranno il monitoraggio
delle iniziative e l'organizzazione di specifiche attività e momenti di
verifica e valutazione che serviranno a dare indicazioni utili per lo sviluppo
in itinere ed il “riorientamento” dei piani di intervento e delle azioni
positive di raccordo promosse.
Il Sovrintendente scolastico regionale avrà cura
nell'organizzare incontri con gli ispettori tecnici delle tre scuole in seduta
congiunta, per elaborare un piano di iniziative che dovranno favorire la
continuità e garantire l'opportunità consulenza tecnica, verifica-valutazione
delle esperienze in atto e curare la documentazione.
Indicazioni per la fase di avvio e valutazione
Le disposizioni che sono
contenute nel decreto ministeriale e illustrate con la circolare furono
applicate con le operazioni di programmazione relative all'anno scolastico
1993/1994. Nel periodo precedente i soggetti istituzionali che abbiamo
indicato, dovevano promuovere ogni azione utile di sensibilizzazione,
aggiornamento, approfondimento sul tema della continuità e anche farsi promotori di iniziative per mettere a
fuoco i problemi e, dove ciò non si fosse realizzato, le conoscenze reciproche
tra operatori dei diversi gradi,attivando gruppi di lavoro unitari per la
continuità con il compito di avviare la formulazione delle proposte.
Durante gli anni della prima applicazione della
circolare, i piani erano finalizzati a definire forme e modalità “locali” di
impostazione del fascicolo dell'alunno, secondo le indicazioni fornite.
Successivamente vennero prese in considerazione
tutte le forme di raccordo che sono state indicate nell'art. 2 del D.M.
L'attuazione di queste nuove disposizioni saranno
accompagnate da un' autovalutazione annuale dei piani e delle relative azioni
positive di raccordo da parte dei Collegi dei docenti interessati e finalizzati
per le successive riprogettazioni.
La valutazione di questa iniziativa sarà anche
oggetto di specifiche indagini che verranno aggiunte a quelle già indicate in
precedenza e autonomamente sviluppate da provveditori e ispettori.
Per quanto riguarda la scuola elementare, queste
indagini si inseriscono nel quadro della riforma prevista dall'art. 15 della
legge n. 14/1990.
La continuità negli istituti
comprensivi
Gli
istituti comprensivi sono dei veri e propri laboratori di continuità educativa
in quanto riuniscono, all’interno di una singola istituzione scolastica, plessi
di scuola dell’infanzia, di scuola elementare e di scuola media.
Tali
istituti si sono progressivamente diffusi su tutto il territorio nazionale a
partire dall’anno scolastico 1994/95.
Inizialmente
nati in un’ottica economicistica, ovvero di contenimento della spesa pubblica,
sono passati ad un’ottica propriamente pedagogica tesa alla diffusione della
cultura e della pratica della continuità educativa.
Il curricolo
verticale
Il
curricolo verticale di un istituto comprensivo è un percorso strutturato allo
scopo di costruire l’apprendimento dell’alunno dai 3 ai 14 anni, cioè
dall’ingresso nella scuola dell’infanzia all’uscita dalla scuola secondaria di
1° grado, esplicitando obiettivi, contenuti, metodologie e competenze.
Viene
portato avanti per ogni disciplina e, nel tempo, è nata l’esigenza di
strutturarlo anche per la parte relazionale, afferente all’ambito dell’educazione
alla convivenza civile.
L’analisi
del lavoro sul curricolo porta a considerare che:
- Occorre molto tempo, si parla di anni,per arrivare alla costruzione di questo genere di percorso;
- È necessaria una modalità di approccio basata sulla condivisione e sulla costruzione di continuità, cioè volontà di attivazione di gruppi di lavoro con docenti dei tre ordini di scuola che si confrontano su temi comuni, da sviluppare necessariamente in verticale;
- Il curricolo deve essere sottoposto a continua verifica e ad eventuali adattamenti;
E’
opportuno ed interessante proporre la modalità e l’ambiente di lavoro utile
alla costruzione del curricolo stesso: i docenti sono attivamente impegnati
nella costruzione di un percorso, non solo teorico, ma che dovranno necessariamente
mettere in pratica e che sarà un valido supporto funzionale all’apprendimento.
La costruzione di più gruppi di lavoro getta le basi per una diffusione ed una
condivisione delle scelte a tutto il collegio. Questa si ottiene anche
prevedendo momenti di riflessione/verifica sul lavoro fatto, o sulle eventuali
modifiche apportate, organizzati attraverso gruppi di studio in verticale,
operativi da settembre, durante tutto l’anno scolastico, fino a giugno. La
necessità di riflettere e confrontarsi sulla didattica, stimola richieste per
l’aggiornamento, sia personale, sia generale. La presenza di un documento vivo e condiviso, costituisce una base
di sicurezza e di orientamento per i docenti nuovi.
Rappresenta l’occasione per costruire una continuità
non solo formale tra i tre ordini di scuola.
SVANTAGGIO
ed
HANDICAP
Etimologia
Svantaggio: condizione sfavorevole, di inferiorità
rispetto agli altri.
Acrostici


e anno
enissero
nche
ccolti
ecessità
ei
i
anti n nteragire
nteragire n
mbienti
on on le
entilmente
ltre
ioiremmo
nsieme ersone
Terminologia
Inizialmente sono state definite
alcune parole, per orientarsi nell’argomento:
·
DEFICIT:
per indicare la lesione biologica irreversibile dalle quali possono scaturire
situazioni di handicap.
- DIVERSITA’: come dimensione esistenziale delle persone (e non caratteristica emarginante). Diversità come svantaggio fisico ma anche socio-culturale e quindi ostacolo allo sviluppo (un esempio di lettura-stimolo può essere la “favola del Re Trentatré”).
- DISABILITA’: risultato di una complessa interazione tra le condizioni di salute di un individuo, i fattori personali in cui vive l’individuo.
- DIVERSABILITA’: questa divisione, più congrua, risulta positiva e prepositiva perché consente di mettere in evidenza le abilità e non le disabilità.
Tutti
possono avere una condizione di salute che in alcuni ambienti causa disabilità.
- SVANTAGGIO: la situazione di svantaggio, ovvero il disagio nel comportamento e negli apprendimenti, legata a situazioni familiari, affettive, economiche, sociali non riceve di solito interventi specifici nella quotidianità scolastica (ma vi può essere il supporto esterno dell’assistenza sociale o altra parte dell’ASL).
- HANDICAP: indica un insieme di danni (disabilità) fisici e psichici o di situazioni culturali e sociali.
- DIVERSAMENTE ABILE: termine usato dal Ministero. L’OMS non lo usa. Per come è stata definita la disabilità, questa non è l’abilità diversa ma la mancanza di qualche abilità.
Questi termini
entrano nelle circolari ministeriali negli anni ‘70, mentre in precedenza si
parlava di anormali, minorati psichici, deficienti.
Sono state
poste due domande le cui le risposte potevano aiutarci a chiarire tali
informazioni ricevute.
- Chi sono i bambini disabili?
- Dove sono i bambini disabili?
Sono persone
che hanno bisogno dell’aiuto di altri per “funzionare” in modo normale. Si
trovano all’interno del percorso scolastico ordinario da trenta anni.
Mentre in
Italia i genitori di un bambino disabile sono obbligati a fargli frequentare
una classe comune, in altri paesi seguono percorsi diversi, come, per esempio,
in Germania, dove ci sono scuole con classi “speciali”, e gli Stati Uniti, che
ci guardano con un’attenzione particolare, cercando di apprendere dal nostro
modello.
Abbiamo
definito che cosa si intende per MENOMAZIONE: una mancanza, un danno che può
essere regressivo o progressivo; per DISABILITA’: una limitazione al proprio
funzionamento normale, che consegue da una menomazione; e per HANDICAP si
intende come si vive le proprie disabilità.
Parlando di
alcune menomazioni, in particolare della Sindrome di Down, un ritardo
mentale che provoca un funzionamento limitato sia nella produzione che nella
comprensione, abbiamo sottolineato il fatto che il bambino non avvertirà il suo
svantaggio come handicap se non vivrà in modo negativo le sue difficoltà. Egli
infatti, non è Down, ma ha la Sindrome di Down.
Non è possibile
intervenire su una menomazione, anche se lieve, dato che il ritardo mentale
rimane. Dunque l’intervento della scuola deve essere quello di favorirne
l’integrazione all’interno della classe.
Documentazione
La situazione
certificata come Handicap dai medici riceve un supporto istituzionale, come un
insegnante di sostegno e sostegni da parte di ASL o altri enti.
La legge Quadro
104 del 1992 e le successive disposizioni, in particolare il DPR del 24
febbraio 1994 o “atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle
unità sanitarie locali in materia di alcuni portatori di handicap.”
Hanno definito
e regolamentato una specifica metodologia di lavoro per integrazione
scolastica:
- la diagnosi funzionale (DF)
- il profilo dinamico funzionale (PDF)
- il piano educativo individualizzato (PEI)
Il DF è la fotografia iniziale del
bambino, una diagnosi che fa un medico specialista indicando i punti deboli ma
anche quelli forti. In base a queste osservazioni si avvia il PDF, documento a lungo termine dai sei
mesi a due anni, in cui il gruppo multidisciplinare si allarga, ognuno nel
proprio ambito,, con le competenze specifiche,fa delle proposte unitarie. Il
terzo ed ultimo passaggio è il PEI,
che dovrebbe contenere le diverse programmazioni. Infatti dopo aver stabilito
gli obiettivi didattici, si definiscono le strategie, i mezzi, i tempi e i
luoghi idonei per raggiungerli.
Il PEI è redatto dagli insegnanti, in
collaborazione degli specialisti e della famiglia e comprende tutti gli interventi
integrati, predisposti per l’allievo in situazioni di handicap.
La costruzione
del PEI e la sua reale applicazione non
deve essere delegata unicamente all’insegnante di sostegno, ma tutti i
docenti devono essere partecipi, perché l’integrazione di alunni in difficoltà
riguarda tutti gli ambiti della vita scolastica.
Il PEI deve
comprendere il progetto
didattico-riabilitativo e quello di socializzazione.
Normativa
legge 517 del 1977
|
introduce,
per la prima volta nella storia della scuola, un importante innovazione
riguardo l’inserimento dei soggetti disabili. In tale legge, appare il
termine integrazione a sostituzione del termine inserimento, che aveva una
connotazione negativa.
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|
Circolare 216
|
Il
Ministero della pubblica istruzione, poco prima della legge del ’77,la emanò
che sollecitava alcune delle nuove prassi di integrazione, accompagnate da
esperienze già vissute, da questa circolare emergeva la mancanza di un
sistema ben definito da seguire. La circolare parlava anche dei Gruppi di
Lavoro formati nel ‘75 e impiegati nei Provveditorati agli studi come
coordinatori tra scuole e amministrazioni in materia di educazione speciale.
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Circolare Ministeriale 199
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Nel 1979,
incentra il tema dell’Insegnante di Sostegno, sottolineando che i compiti di
tale figura non sono inferiori a quelli del docente di classe, anzi, deve
collaborare ed essere coinvolto negli stessi ambiti dell’insegnante di
classe, come programmazione, elaborazione, verifiche.
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legge 104 del 5 febbraio 1992
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conosciuta
come Legge Quadro sull’handicap,
non evidenzia particolari novità ma organizza e chiarisce le vecchie
normative. Tutti i suoi 44 articoli sono chiari e semplici. Nell’articolo 3
viene definita la parola handicappato come persona con minoranze fisiche
psichiche o sensoriali, che causano difficoltà di apprendimento relazione e
integrazione. Dall’articolo 12 al 17 si parla di educazione; la prima cosa
visibile è che ne parla in relazione a tutta la formazione dell’individuo,
partendo dalla scuola dell’infanzia, fino alla formazione professionale;
l’art. 13 in particolare parla di integrazione scolastica, allargata anche a
tutti quegli ambiti che fanno parte della vita di un individuo (sanità,
ambienti ricreativi, sportivi..).
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Verso l’autonomia
La legge 59 del 1997
|
sull’autonomia
sarà quella che poi darà spunto al DPR 275 o regolamento sull’autonomia del
’99. Per autonomia si intende quella libertà amministrativa, didattica e
organizzativa che rispetta le indicazioni nazionali, adattandosi allo
specifico contesto territoriale. Si fa riferimento alla disabilità
nell’articolo 4, dove si parla dell’importanza dell’autonomia anche per
l’integrazione di soggetti con handicap, adattando tutte le forme di
flessibilità possibile. Tutto ciò viene poi esplicitato nel POF, elaborato
dal collegio dei docenti e adottato dal Consiglio di Istituto. L’importanza
evidenziata nella legge è quella di integrare a pieno i soggetti con
handicap, evitando di affidarli a pochi docenti, magari specializzati, che
praticano la didattica in ambienti differenti dalla loro classe. La scuola
così è una COMUNITA’ INTEGRANTE, attenta ai bisogni di tutti e rispettando le
esigenze educative di ciascun individuo.
|
Disturbi evolutivi specifici
dell'apprendimento
La categoria dei disturbi
evolutivi specifici di apprendimento viene identificata con l’acronimo DSA. Con questo termine ci riferiamo ai
soli disturbi delle abilità scolastiche e in particolare a:
- dislessia: disturbi specifici di decodifica e comprensione della lettura.
- disortografia e disgrafia: disturbi specifici di scrittura.
- discalculia: disturbi specifici del calcolo.
La principale caratteristica di
questa categoria è quella di essere intesa come un disturbo che interessa
specifiche abilità, in maniera significativa ma circoscritta, lasciando intatto
il funzionamento intellettivo generale. Alla luce di ciò, il principale
criterio per stabilire la diagnosi di DSA è quello della discrepanza, tra abilità nel dominio
specifico interessato e l’intelligenza generale.
Dislessia
Nell’ambito della letteratura
internazionale, vari studi stanno evidenziando, accanto al profilo della
dislessia intesa come disturbo specifico della decodifica, anche l’accezione di
disturbi della comprensione del testo scritto, indipendenti sia dai disturbi di
comprensione, da ascolto che dagli stessi disturbi di decodifica. Si sottolinea
anche la necessità di studiarne meglio le caratteristiche, avviando progetti di
ricerca riguardo al ruolo della comprensione da ascolto.
Disortografia e disgrafia
Il disturbo della scrittura si
suddivide in due componenti: una di natura linguistica o deficit nei processi
di cifratura, e una di natura motoria o deficit nei processi di realizzazione
grafica. Il disturbo di scrittura può presentarsi in isolamento, o più
tipicamente, in associazione ad altri disturbi specifici. Al fine di descrivere
questa co-occorrenza di disturbi, senza stabilire una gerarchia tra gli stessi,
si propone di utilizzare la dicitura estesa “Disturbo Specifico di
Apprendimento della Lettura e/o della Scrittura e/o del Calcolo”.
Discalculia
La più recente letteratura sul
Disturbo del Calcolo distingue, nella Discalculia, profili connotati da
debolezza nella strutturazione cognitiva delle componenti di cognizione
numerica e altri che coinvolgono procedure esecutive ed il calcolo. Vi è anche
un generale accordo sull’escludere dalla diagnosi le difficoltà di soluzione
dei problemi matematici.
Anche il disturbo del calcolo può
presentarsi in isolamento o in associazione ad altri disturbi specifici.
Nel Gennaio 2008 si è stimato che
tra la terza e la quinta classe primaria e la terza classe della secondaria di
primo grado, il valore medio della prevalenza dei DSA vari dal 3% al 4%. Questi
dati possono dipendere dall’età in cui viene effettuata la diagnosi e dal tipo
di strumenti utilizzati per la diagnosi.
La storia
A partire dalla prima metà del
Novecento, l’integrazione dei soggetti con difficoltà, o con deficit, cominciò
ad essere sentita come un dovere sociale, anche se non esistevano strumenti
adeguati per affrontarla. Le persone che presentavano difficoltà venivano
considerate non in grado di partecipare a una vita sociale regolare e di
ricevere un’educazione pari a quella impartita alle persone considerate nella
norma.
Per alcuni deficit sensoriali, come
quelli uditivi e visivi, vennero fondate delle scuole speciali, nate da
istituzioni di tipo caritatevole. Il ruolo di queste scuole, però, si ridusse
spesso a un compito di custodia: gli aspetti rieducativi e quelli riabilitativi
vennero tralasciati, anche a causa del fatto che il personale, a cui i soggetti
venivano affidati, era scarsamente preparato per affrontare con efficacia i
loro problemi. Così i soggetti che presentavano limitazioni psicofisiche
venivano esclusi dagli istituti scolastici cosiddetti normali, per essere
inseriti, se le famiglie potevano permetterselo, in istituti privati.
Dopo la Riforma Gentile,
tuttavia, l’istruzione pubblica prese in carico anche l’educazione speciale, la
quale venne disciplinata dalla nuova normativa riguardante l’obbligo
scolastico: «l’ obbligo è esteso ai
ciechi ed ai sordomuti che non presentano altra anormalità che ne impedisca
loro l’ottemperanza nelle scuole ad essi riservati». Ciò portò alla
previsione di percorsi di formazione per insegnanti specializzati, comportando
il passaggio dall’iniziativa privata all’intervento educativo, realizzato in
scuole speciali e quindi ad una sempre maggiore attenzione alle esigenze dei
soggetti con deficit. Continuò tuttavia a permanere il principio
dell’emarginazione e l’ allontanamento di queste persone dai gruppi sociali,
dall’ambiente, conducevano ad un ulteriore abbassamento delle possibilità di
apprendimento.
A partire dalla seconda metà del
Novecento, invece, si diffuse un approccio di tipo medico-terapeutico-riabilitativo
alla questione dell’integrazione sociale dei soggetti diversamente abili.
Nel 1962 un importante
provvedimento sancì lo stanziamento dei fondi per il reperimento di
attrezzature e per l’ assistenza igienica-sanitaria nelle scuole speciali, ma
soprattutto per le nuove “classi differenziali”, istituite nelle scuole statali, appositamente
per l’accoglienza di alunni con deficit. L’ individuazione di soggetti
portatori di handicap venne affidata al direttore didattico, il quale, in
accordo con un medico, doveva compiere accertamenti per una più esaustiva
conoscenza di tali soggetti. Iniziò, così, a istituirsi una scuola che
affrontava il problemi dell’inserimento dei soggetti diversamente abili, o
almeno di quelli che presentavano solo lievi anomalie, e che riconosceva il
diritto di queste persone ad accedere alla scuola di tutti, sebbene ciò
avvenisse in classi separate, sottolineando la loro differenza rispetto agli
altri.
Negli anni Settanta, il cammino
per l’ inserimento e l’integrazione degli alunni con deficit, nella scuola dei
normali, proseguì: «l’istruzione dell’obbligo deve avvenire nelle classi
normali della scuola pubblica salvo i casi in cui i soggetti siano affetti da
gravi deficienze intellettive e da menomazioni fisiche di tale gravità da
impedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle
predette classi normali». Il rapporto tra l’istituzione scolastica e i disabili
continuò, comunque, ad essere problematico perché molte furono, e in parte lo
sono ancora, le difficoltà a trasformare la realtà negativa dell’handicap in
un’esperienza di maturazione e di integrazione graduale nel contesto
scolastico.
Ma nel 1977 vennero abolite le
classi differenziali e venne stabilito che i portatori di handicap fossero
inseriti, al fine di promuovere il loro sviluppo cognitivo, affettivo e
sociale, nelle classi dei cosiddetti normodotati. Allo scopo di realizzare una
buona forma di sostegno e integrazione la stessa legge prevedeva la figura di
un insegnante di sostegno, con il
compito di fare in modo che l’attività del portatore di handicap fosse
integrata nel lavoro del gruppo-classe.
Questa persona si occupava
primariamente di aiutare il bambino
disabile. Ciò, però, causava il rischio di una delega, da parte degli altri
insegnanti, della gestione del bambino con difficoltà, con il rischio che si
creasse una emarginazione del bambino stesso e del docente. L’insegnante di
sostegno veniva considerato insegnante solo del bambino disabile. Solo dopo
qualche anno si capì che le sue competenze specializzate dovevano essere
condivise da tutto il collegio di quella determinata classe. In questo nuovo
modello tutti interagivano col bambino, si occupavano del suo progetto e l’
insegnante di sostegno metteva a disposizione le proprie conoscenze per tutti
gli altri alunni normodotati. Inoltre i docenti attuavano (ed attuano anche
tuttora) percorsi di riabilitazione indirizzati ad eliminare la disabilità che
sta alla radice dell’handicap.
L’handicap può essere annullato
quando le condizioni dell’ambiente sociale fanno sì che le prestazioni del
disabile siano uguali a quelle dei cosiddetti normodotati; per esempio una
persona non-vedente che può leggere attraverso una tecnologia informatica non
è, dunque, un handicappato. Nella riabilitazione era, ed è, anzitutto presente
un livello medico ma anche una serie di percorsi terapeutici che coinvolgono il
disabile come protagonista attivo, e inoltre vi è anche un livello sociale che
consiste in interventi volti a far sì che le richieste sociali diminuiscano al
massimo il loro potenziale handicappante, rispetto alla disabilità in
questione.
Fu proprio negli anni
tra la fine del Settecento e i primi decenni
dell’Ottocento, cioè quando sono state poste le basi della pedagogia
speciale, che ebbe inizio un vasto dibattito sul differente significato da
attribuire al processo di integrazione di alunni portatori di handicap e alla
condizione di svantaggio. In questi anni, infatti, le istituzioni si convinsero
che il diritto all’educazione e all’istruzione non poteva essere impedito dalla
presenza di difficoltà nell’apprendimento scolastico, siano esse legate a
situazioni di handicap o di svantaggio.
I due aspetti sono comunque
differenti tra di loro e per questo non devono essere confusi. Infatti la
condizione di svantaggio è legata a carenze affettive e familiari, al disagio
economico e sociale o a divari culturali e linguistici. La programmazione
educativa, in questo caso, dovrà costruire percorsi individualizzati che
prendano in considerazione i livelli di partenza e dovranno porre progressivi
traguardi da verificare in itinere. Mentre il processo di integrazione dei
bambini con difficoltà esige che la scuola affronti il processo
educativo-didattico sulla base di una diagnosi funzionale predisposta da
servizi specializzati. Tale diagnosi serve per conoscere la disabilità e quindi
per conoscere il bambino e per meglio progettare il suo percorso educativo.
Deve porre in evidenza le principali aree di potenzialità e di carenze,
cosicché gli interventi dei docenti siano i più idonei a corrispondere ai
bisogni del singolo soggetto. Questi interventi dovranno mirare a promuovere
l’autonomia, l’acquisizione di competenze e abilità espressive ma anche
matematiche. Tale alunno pone alla scuola una domanda più complessa di aiuto
educativo e di sostegno didattico.
La scuola svolge, infatti, un
ruolo fondamentale per recuperare il disadattamento, perciò deve potersi
avvalere della collaborazione di specialisti, di servizi strutture disponibili sul territorio del
sistema socio-sanitario. Queste collaborazioni sono importanti perché si
possono ottenere modifiche strutturali dell’ambiente per garantire, ad esempio,
l’accessibilità, l'abbattimento delle barriere architettoniche, per avere la
disponibilità di ausili per la comunicazione e l’apprendimento, come computer,
sistemi alternativi di comunicazione. È utile anche la cooperazione con la
famiglia, che ha il compito educativo, con gli opportuni sostegni, di
assicurare al suo figlio una normalità quotidiana, basata sull’accettazione dei
problemi suscitati dall’inserimento dei diversi ambienti di vita, piuttosto che
sull’oscillazione fra iperprotezione e abbandono.
La disabilità non è solo un
aspetto parziale della vita di un bambino, ma influenza l’ intera vita. Dunque
tali persone devono essere aiutate a scuola, ma anche nel loro normale contesto
di vita con l’ aiuto di insegnanti che siano in grado di promuovere un
insegnamento centrato sul bambino. Per questo è utile che un docente abbia
un'idea flessibile a proposito dell’educazione, per poter creare, scoprire ed utilizzare nuove risorse
e metodologie educative.
Il punto di vista pedagogico
Al dibattito sul tema della
disabilità hanno partecipato numerosi pedagogisti che hanno progressivamente
maturato idee più consapevoli sulla figura delle persone con difficoltà, sulle
strategie educative e didattiche più efficaci. Queste opinioni hanno poi
affermato il “diritto alla diversità”: tutte le persone, indipendentemente
dalle proprie caratteristiche, devono poter fruire dei propri diritti. Infatti
la diversità non deve essere intesa come minorazione o disagio.
Giuseppe Lombardo Radice
Radice propone una concezione
meno elitaria della scuola, vedendola come un’istituzione in cui devono trovare
posto anche i più deboli. Si deve quindi avere un’attenzione maggiore verso
coloro che la scuola tende invece ad emarginare per numerose ragioni. L’autore
non esorta il maestro a mettere a punto strategie didattiche speciali, ma solo
ad una particolare sensibilità nei loro confronti.
Ovide Decroly
E’ stato uno dei primi che ha
cercato di classificare i deficit. Questo tema è stato a lungo dibattuto,
suscitando polemiche di importanti correnti, che sottolineano come ogni
classificazione sia parziale e ostacoli una percezione globale e
individualizzata della persona, così da interferire su futuri interventi che si
focalizzano sul deficit e non sulle abilità e le potenzialità presenti nel
soggetto. Decroly pone la sua attenzione sull’importanza di un’indagine sulla
varietà delle cause che possono condurre ad una condizione di difficoltà
scolastica, sia del complesso intreccio, esistente a questo riguardo, tra
fattori innati e condizionamenti ambientali. L’irregolarità richiede obiettivi
formativi particolari, caratterizzati dall’uso attento di un ambiente adeguato
e di percorsi formativi individualizzati.
Binet e Simon
Le prime scale metriche
dell’intelligenza sono comunque state elaborate da Binet e Simon. Questi
costruirono una scala in grado di determinare se un dato soggetto ha l’intelligenza
della sua età o se è in ritardo (oppure in anticipo) e a quanti mesi o anni
ammontano. L’ idea di misura si riconduce a quella di classificazione
gerarchica. La misura viene fissata in funzione dello sviluppo mentale e, per
l’intelligenza, come per l’istruzione e come per lo sviluppo corporeo, si
determina il ritardo o l’anticipo di tanti anni, quanti il bambino ne presenta
rispetto ai suoi compagni. Il test Binet-Simon costituisce, anche oggi, una
tappa fondamentale nel percorso di sviluppo della concezione dell’educazione
dei soggetti diversamente abili, dal momento che affronta l’insufficienza
mentale con strumenti della psicologia sperimentale. In seguito si sviluppò un
complesso dibattito per la difficoltà di classificare deficit, che rimane imperfetta
e inadeguata a rendere conto delle complessità delle situazioni particolari.
Maria Montessori
Anche la pedagoga Maria
Montessori si inserisce in questa tradizione fornendo il suo contributo.
Secondo lei il principale problema dei bambini caratterizzati da deficit di
natura psichica è costituito dall’incapacità di porre ordine tra i diversi
stimoli di cui fanno esperienza. È dunque la formazione di tale organizzazione
mentale che va favorita. La studiosa crede fortemente che l’educazione di tutti
i bambini deve fondarsi sull’esperienza sensoriale e sull’ordine.
Questo è possibile mediante la
proposta di stimoli progressivi appartenenti, di volta in volta, ad una singola
area sensoriale. La pedagoga, per giungere a tale fine, proponeva ai propri alunni
dei materiali didattici appositamente preparati e strutturati, in modo da
indurre i bambini a riordinare le proprie esperienze nell’ambito dei suoni,
delle forme, dei colori, del peso, della densità.
La Montessori, quindi, basa il
suo processo didattico su una serie di percorsi mirati all’acquisizione di
singole conoscenze e competenze.
Montessori:
l’ educazione speciale come strada maestra per l’ educazione generale.
… io non ho fatto altro che
studiare il bambino e ricevere ed esprimere ciò che egli mi ha dato, e che
viene chiamato il Metodo Montessori. Tutt’al più io sono l’ interprete del
bambino. Ho alle spalle un’esperienza di quarant’anni di lavoro, che ho
incominciato partendo dallo studio medico e psicologico di bambini
subnormali, a cui ho cercato di portare aiuto. Ho avuto così modo di vedere
che questi bambini, indirizzati in base al nuovo metodo di collaborazione con
le loro menti subconscie, sviluppavano capacità veramente notevoli, tanto che
si è deciso di estendere l’esperimento anche a bambini normali: in alcuni dei
più poveri quartieri di Roma si fondarono le Case dei Bambini, destinate a
raccogliere piccoli ospiti dai tre anni di età in poi. I visitatori restano
stupiti nel trovare bimbetti di quattro anni che sapevano leggere e scrivere,
e domandavano: «Chi ti ha insegnato a scrivere?». E il bambino, guardandoli
meravigliato, rispondeva: «Insegnato? Nessuno mi ha insegnato; ho imparato da
solo». Io riuscii ad insegnare le lettere dell’alfabeto a bambini di quattro
anni, ripetendo con bambini normali esperimenti che avevo tentato con dei
piccoli ritardati. Avevo osservato che il presentar loro semplicemente le
singole lettere, un giorno dopo l’altro, non faceva su di loro un’impressione
durevole: ma quando feci incidere le forme delle lettere nel legno, con
scanalature profonde, e insegnai loro a passare le punte delle dita lungo
quelle scanalature, appresero immediatamente a riconoscere ogni lettera.
Persino i bambini subnormali, con questo sistema, dopo un certo tempo
imparavano un po’ a scrivere. Così mi resi conto che il senso del tatto
doveva essere un grande aiuto per i bambini che non si erano ancora
sviluppati completamente, e preparai per loro semplici lettere di cui
dovevano seguire i contorni con la punta delle dita. Un fenomeno
assolutamente inaspettato si ebbe quando questo metodo fu applicato con
bambini normali: si presentarono le lettere alla scolaresca nella seconda
metà di settembre, e i piccoli allievi quell’anno scrissero da sé le loro
letterine di Natale! Una tale rapidità era più di quanto si potesse sperare.
Inoltre i bambini cominciarono a far domande sulle lettere, ricollegandolo ai
suoni: sembravano piccole macchine intese ad assorbire avidamente l’alfabeto,
come se ci fosse stato nelle loro menti un vuoto, che lo aspirava.
|
Dunque la pedagogia speciale da
adattamento dei percorsi educativi dei bambini normodotati a favore di quelli
con deficit diviene, al contrario, la strada per scoprire metodi, in grado di
rinnovare l’educazione generale e di giovare a tutti i bambini. L’approccio
comportamentista, invece, è volto piuttosto alla messa a punto di metodologie
di scomposizione degli obiettivi e delle attività di apprendimento, tali da
rendere più agevole l’educazione speciale. Si possono quindi notare punti di contatto
con il metodo Montessori, entrambi caratterizzati dal fatto di utilizzare
modalità limitate, ordinate e ripetitive di esperienza, per garantire
acquisizioni sicure e commisurate a livelli di capacità del soggetto.
Bettelheim
L’aspetto affettivo-emotivo,
invece, è stato esaminato dalle tradizioni di ricerca di derivazione
psicoanalitica, in particolare da Bettelheim. Egli ha fondato un istituto che
non può essere inteso come scuola speciale: più che una scuola nel senso
tradizionale del termine esso va considerato un istituto specializzato per
l’attività psico-terapeutica, infatti l’istituto non era un’alternativa alla
scuola come luogo di apprendimento, ma un vero e proprio spazio di cura, che
aveva come obiettivo il recupero dei bambini alla normalità emotiva e
relazionale, premessa indispensabile per il loro inserimento nella scuola e in
tutte le esperienze della vita quotidiana. Per questo i soggetti che
frequentavano la scuola dovevano essere considerati come persone che in passato
avevano fatto esperienza di sofferenze, che dovevano superare.
Volta a superare l’atteggiamento piuttosto
diffuso che identifica le persone diversamente abili, soprattutto attraverso il
loro deficit, la pedagogia speciale degli ultimi due decenni ha iniziato a
configurarsi come sapere sempre più autonomo rispetto alla tradizione
interpretativa medico-biologica, per assumere l’attuale forma di insieme di
studio e interventi, tesi ad affrontare, in modo alternativo, i problemi dei
soggetti portatori di handicap. Non a caso è stata scelta la denominazione che
indica come persone diversamente abili coloro che possiedono altre abilità
rispetto alle persone nella norma, ed è su tali abilità che deve basarsi
l’intero progetto di inserimento e integrazione di questi soggetti.
L’integrazione dei soggetti
diversamente abili viene intesa come un importante compito che coinvolge
l’intera comunità, sia sul piano scolastico, sia su quello territoriale.
L’integrazione è un cambiamento e un adattamento reciproco, sia da parte della
persone con difficoltà che da quelle normodotate, è un processo aperto e
correlato con il riconoscimento e l’assunzione delle identità e delle
conoscenze incorporate. La finalità, nell’ambito scolastico, dell’inserimento è
tendere alla crescita della personalità dell’alunno in situazione di handicap e
dei suoi compagni sotto il profilo degli apprendimenti, della comunicazione,
della socializzazione e degli scambi relazionali. Ciò implica, nei confronti
della società, sul piano educativo, l’accoglienza della diversità come normale
modo di essere di tutti gli individui umani: nei confronti del disabile, il
fornire una serie di conoscenze e competenze per ridurre il più possibile il
potenziale disadattante della disabilità, aggirandolo. Occorre comunque
ricordare che l’efficacia del percorso di inserimento e integrazione scolastica
dell’handicap è possibile solo a partire da alcune premesse operative:
- l’handicap deve essere ammesso e non negato attraverso finzioni di uguaglianza: la situazione di handicap produce infatti una serie di carenze che devono essere affrontate.
- la socializzazione è fondamentale.
- la comunicazione è fondamentale.
- la continuità e il rispetto dei ritmi individuali sono importanti.
- gli obiettivi devono essere adeguati alle capacità di sviluppo.
- la situazione deve essere affrontata mediante la cooperazione tra famiglia e scuola e degli insegnanti tra di loro.
Al docente spetta non solo il compito di prevenire l’insorgenza
del disagio, ma anche di evitare il suo esito negativo favorendo l’integrazione
creatrice di valori. Diviene così fondamentale la capacità degli educatori di
assicurare un ambiente sereno e una disponibilità al dialogo autentico.
L’accoglienza
Madame De Stael accoglieva, nel suo salotto
parigino, le personalità più eminenti del mondo della cultura del suo tempo: le
ospitava per ascoltarle, riconoscendone il valore. Anche la scuola dovrebbe
presentarsi come un salotto, una sala di accoglienza. Accogliere, da “accolligere”=radunare:
mettere insieme, creare un contesto umano, un vivaio di relazioni umane, nella
prospettiva della crescita personale di tutti coloro che ne fanno parte, che ne
sono parte integrante (integrazione). Accogliere gli alunni disabili significa,
appunto, fare in modo che essi siano parte integrante del contesto scolastico,
assieme agli altri alunni, alla pari degli altri alunni, senza discriminazione
alcuna. Al riguardo, appare opportuno evidenziare che l’integrazione, e quindi
l’accoglienza, non riguarda solo gli alunni in situazione di handicap, ma tutti
gli alunni, in quanto riconosciuti e valorizzati nella loro diversità e nella
irripetibile, unica, singolare personalità, che costituisce il valore di ogni
persona umana. La scuola non può non riconoscere tutti nella loro diversità,
facendosi scuola per tutti, scuola su misura dei singoli alunni, quali che
siano le loro possibilità formative, che nessuno può diagnosticare in termini
assoluti, perentori, definitivi, né per l’alunno in situazione di handicap, né
per gli altri alunni. Pertanto, l’accoglienza non può essere intesa come
benevolenza, generosità, filantropia, ma come riconoscimento del valore della
persona del disabile che, come tutti gli altri bambini, va accolto per le sue
possibilità, per i potenziali valori umani di cui è portatore. In tale
prospettiva, l’accoglienza si configura, non come un generico atteggiamento di
disponibilità umana, di benignità, di degnazione, ma come impegno forte di
conoscenza e di valorizzazione della realtà personale, umana, sociale,
familiare di ogni alunno, e quindi anche del disabile.
L’accogliere è un riconoscere le persone, un
prendere atto dei valori di cui essi sono portatori. E quindi, un impegno di
conoscenza. Ma l’accoglienza degli alunni, compresi i bambini disabili, non si
configura solo come riconoscimento dei valori potenziali di cui ciascuno è
portatore, ma anche e soprattutto come impegno di promozione della loro
formazione. L’accoglienza non si esaurisce nei saluti, nelle strette di mano,
negli abbracci e nei baci. L’accoglienza vera, autentica, sostanziale è quella
che si estrinseca nell’impegno di promozione dello sviluppo, della formazione,
dell’educazione e dell’istruzione degli alunni. L’integrazione degli alunni in
situazione di handicap deve significare il superamento della loro emarginazione.
Essi non possono essere emarginati, anche se inseriti nella scuola comune,
realizzando per loro, solo per loro, interventi specifici, differenziati,
individualizzati. L’integrazione degli alunni in situazione di handicap può
essere realizzata solo in una scuola che si fa a misura di tutti gli alunni,
perché tutti, non solo i disabili, sono diversi.
La diversità è caratteristica peculiare
dell’uomo. Il potenziale umano non riesce ad esprimersi in una sola cultura, in
una sola lingua, in una sola attività umana, in una sola persona umana, ma ha
bisogno delle diverse forme culturali, delle diverse lingue, delle diverse
attività umane, dalla musica alla poesia, dalla pittura al teatro, dalla danza
alla tecnologia, alla filosofia e altre. Perciò, la scuola non può offrire
stimoli formativi uguali a tutti gli alunni, in quanto ciascun alunno ha le sue
peculiari esigenze formative, i suoi ritmi ed i suoi stili di apprendimento. La
scuola è accogliente, quando si organizza a misura dei singoli alunni. E, quindi,
l’accoglienza comporta, non solo un atteggiamento di riconoscimento del valore
dei singoli alunni, ma anche e soprattutto un impegno di promozione della loro
formazione, attraverso la realizzazione di un’organizzazione educativa e
didattica personalizzata sia negli obiettivi che nei percorsi formativi.
Innanzitutto, è accogliente la scuola che non impone a tutti gli alunni le
stesse mete formative.
L’educazione consiste nella promozione della
formazione dell’uomo e del cittadino, che però si realizza, si deve sempre
realizzare, nel rispetto delle identità personali, sociali e culturali dei
singoli individui. Ciascun alunno ha le sue esigenze formative, le sue
disponibilità, le sue propensioni, le sue idiosincrasie personali: ogni essere
umano è una realtà unica, irripetibile, singolare, che va riconosciuta,
valorizzata, potenziata, anche tenendo presente che vive in una determinata
cultura, in una determinata società, in una determinata realtà economica, dalle
quali non può essere sradicato. E quindi le mete formative debbono essere
personalizzate.
In tale prospettiva, nella nuova scuola, nella
scuola dell’autonomia, vi saranno obiettivi formativi nazionali, intesi alla
formazione dell’uomo e del cittadino. Anche se tali obiettivi formativi sono
sostanzialmente uguali per tutti gli alunni, essi saranno però sempre
personalizzati, almeno nei livelli e nelle forme del loro conseguimento. Tutti
gli alunni impareranno la lingua italiana, ma ciascuno la parlerà con le sue
personali inflessioni. Tuttavia, accanto a questi obiettivi, vi saranno anche
altri obiettivi, gli obiettivi integrativi e gli obiettivi aggiuntivi, più
specificamente mirati alla personalizzazione dei percorsi formativi dei singoli
alunni. Ma la personalizzazione educativa non riguarda solo gli obiettivi
formativi. Essa riguarda anche e soprattutto i percorsi formativi. Dopo i
saluti, l’accoglienza non può tradursi nell’offerta degli stessi stimoli
formativi a tutti gli alunni, misconoscendo i loro diversificati livelli, stili
e ritmi di apprendimento.
È accogliente la scuola che consente a ciascun
alunno, non solo al disabile, di procedere secondo i suoi ritmi ed i suoi stili
di apprendimento, muovendo dai suoi livelli di sviluppo. Non è certamente
accogliente la scuola della lezione frontale, per sua natura uguale per tutti
gli alunni e come tale discriminante, emarginante per coloro che non riescono a
seguirla. L’ingresso degli alunni in situazione di handicap nella scuola della
lezione frontale si è tradotta, di fatto, in una riedizione della loro
emarginazione, nell’ambito dell’aula comune o negli appositi laboratori, dette
aule di sostegno. Occorre evidenziare con forza che l’integrazione non può
avvenire nell’ambito di un’organizzazione didattica uguale per tutti gli
alunni, per sua natura selettiva, qual era quella della scuola tradizionale.
Come si afferma nel documento Falcucci del 1975, Magna
Charta dell’integrazione degli alunni in situazione di handicap - purtroppo
non adeguatamente nota e tenuta presente - l’integrazione degli alunni in
situazione di handicap passa attraverso un nuovo modo di essere della scuola.
La scuola si pone come scuola che accoglie il disabile solo se si organizza a
misura delle esigenze, dei ritmi e degli stili di apprendimento dei singoli
alunni. E questo la scuola può fare solo se, come ha insegnato in particolare
la Montessori, si struttura in modo da rendere possibile l’individualizzazione
dell’insegnamento per tutti gli alunni .È accogliente la scuola che mette
ciascun alunno nelle migliori condizioni per realizzare il pieno sviluppo delle
sue potenzialità formative a cui ogni essere umano ha diritto («È compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando
di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»).
Tuttavia, se l’accoglienza consiste nel
riconoscimento del valore delle persone, ciò che importa è anche e soprattutto
che le persone avvertano questo riconoscimento e si sentano aiutate nel loro
impegno di autorealizzazione personale. L’accoglienza si realizza solo quando
le persone si sentono accolte, prese in considerazione, valorizzate. E gli
esseri umani si sentono valorizzati nella misura in cui avvertono di poter
realizzare le loro potenzialità umane. Ogni essere umano aspira alla propria
autorealizzazione. Come si afferma nel rapporto Faure, «Ogni uomo è destinato
ad essere un successo e il mondo è destinato ad accogliere questo successo».
Anche il disabile è destinato ad essere un successo.
Perché lo sia, la scuola lo deve accogliere,
senza alcuna discriminazione, in un contesto educativo
che sia a misura di ogni alunno, quali che siano le sue possibilità formative e cognitive. Da trent’anni la scuola italiana sta affrontando questo problema, il problema dell’individualizzazione dell’insegnamento. Non solo nel documento Falcucci, ma anche nella Legge 517/77 si afferma che l’integrazione degli alunni portatori di handicap deve avvenire nell’ambito di un’organizzazione educativa e didattica individualizzata. Le specifiche indicazioni sull’individualizzazione dell’insegnamento contenute nei Programmi del 1979, del 1985 e del 1992 relativamente all’integrazione degli alunni portatori di handicap ribadiscono questa esigenza. Anche la legge 104/92 afferma che l’integrazione degli alunni portatori di handicap deve essere realizzata attraverso un’organizzazione didattica flessibile, anche a classi aperte. Ma l’equivoco di fondo che si è creato è che l’individualizzazione dell’insegnamento riguardi solo gli alunni portatori di handicap.
che sia a misura di ogni alunno, quali che siano le sue possibilità formative e cognitive. Da trent’anni la scuola italiana sta affrontando questo problema, il problema dell’individualizzazione dell’insegnamento. Non solo nel documento Falcucci, ma anche nella Legge 517/77 si afferma che l’integrazione degli alunni portatori di handicap deve avvenire nell’ambito di un’organizzazione educativa e didattica individualizzata. Le specifiche indicazioni sull’individualizzazione dell’insegnamento contenute nei Programmi del 1979, del 1985 e del 1992 relativamente all’integrazione degli alunni portatori di handicap ribadiscono questa esigenza. Anche la legge 104/92 afferma che l’integrazione degli alunni portatori di handicap deve essere realizzata attraverso un’organizzazione didattica flessibile, anche a classi aperte. Ma l’equivoco di fondo che si è creato è che l’individualizzazione dell’insegnamento riguardi solo gli alunni portatori di handicap.
È vero che i processi formativi degli alunni
portatori di handicap si possono realizzare solo attraverso percorsi
individualizzati o personalizzati (PEI o PEP), ma occorre evidenziare a tutto
spiano che se nella scuola si attuano, e giustamente, i percorsi formativi
individualizzati solo per gli alunni portatori di handicap, in questo modo non
si realizza l’accoglienza degli alunni portatori di handicap,
non si attua la loro integrazione, perché si pratica un’ennesima, anche se più sottile, camuffata, subdola emarginazione. Gli alunni portatori di handicap non vengono accolti, ma vengono emarginati ogniqualvolta vengono trattati in modo diverso dagli altri. E ciò che è particolarmente dannoso è che
i bambini disabili, come ogni altra persona, avvertono questa discriminazione, anche quando
le attenzioni nei loro confronti sono maggiori rispetto a quelle riservate agli altri alunni.
La discriminazione, anche se positiva, rimane discriminazione. Il che non significa che gli interventi formativi a favore degli alunni portatori di handicap non debbano essere differenziati, individualizzati, personalizzati. Il grande salto di qualità che la scuola deve realizzare consiste nella realizzazione di un’organizzazione educativa e didattica che sia differenziata, individualizzata, personalizzata per tutti gli alunni, e non soltanto per determinate categorie, quali gli alunni portatori di handicap. Per due motivi: non solo perché l’accoglienza degli alunni portatori di handicap non sia diversa da quella degli altri alunni e perciò discriminante ed emarginante, ma anche e soprattutto perché tutti gli alunni hanno bisogno di percorsi didattici personalizzati. È questa la prospettiva della scuola dell’autonomia che si intravede.
non si attua la loro integrazione, perché si pratica un’ennesima, anche se più sottile, camuffata, subdola emarginazione. Gli alunni portatori di handicap non vengono accolti, ma vengono emarginati ogniqualvolta vengono trattati in modo diverso dagli altri. E ciò che è particolarmente dannoso è che
i bambini disabili, come ogni altra persona, avvertono questa discriminazione, anche quando
le attenzioni nei loro confronti sono maggiori rispetto a quelle riservate agli altri alunni.
La discriminazione, anche se positiva, rimane discriminazione. Il che non significa che gli interventi formativi a favore degli alunni portatori di handicap non debbano essere differenziati, individualizzati, personalizzati. Il grande salto di qualità che la scuola deve realizzare consiste nella realizzazione di un’organizzazione educativa e didattica che sia differenziata, individualizzata, personalizzata per tutti gli alunni, e non soltanto per determinate categorie, quali gli alunni portatori di handicap. Per due motivi: non solo perché l’accoglienza degli alunni portatori di handicap non sia diversa da quella degli altri alunni e perciò discriminante ed emarginante, ma anche e soprattutto perché tutti gli alunni hanno bisogno di percorsi didattici personalizzati. È questa la prospettiva della scuola dell’autonomia che si intravede.
L’augurio è che questa prospettiva sia non solo
delineata ma anche realizzata nella
concreta organizzazione educativa e didattica di tutte le scuole. Ci sono tutte le condizioni perché
ciò si verifichi, soprattutto in un momento in cui la scuola parallela delle tecnologie multimediali
si pone su questa strada. Ma forse è opportuno essere vigili e portare avanti con forza
questo discorso, se si vuole che i bambini disabili siano accolti nella scuola, alla pari degli
altri bambini, secondo i principi non solo della filantropia, ma anche della
Carta Costituzionale («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti
alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali»). L’accoglienza dei bambini disabili non è solo un atto di umana generosità, ma anche e soprattutto un dovere al quale nessuno è consentito sottrarsi. Certamente, sarà meglio
se da tutti sarà avvertito, insieme, come un obbligo morale e come un sentimento di profonda frattura
L’inserimento nella scuola primaria
concreta organizzazione educativa e didattica di tutte le scuole. Ci sono tutte le condizioni perché
ciò si verifichi, soprattutto in un momento in cui la scuola parallela delle tecnologie multimediali
si pone su questa strada. Ma forse è opportuno essere vigili e portare avanti con forza
questo discorso, se si vuole che i bambini disabili siano accolti nella scuola, alla pari degli
altri bambini, secondo i principi non solo della filantropia, ma anche della
Carta Costituzionale («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti
alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali»). L’accoglienza dei bambini disabili non è solo un atto di umana generosità, ma anche e soprattutto un dovere al quale nessuno è consentito sottrarsi. Certamente, sarà meglio
se da tutti sarà avvertito, insieme, come un obbligo morale e come un sentimento di profonda frattura
L’inserimento nella scuola primaria
L’inserimento nella scuola
elementare è un passaggio importante nella vita del piccolo e richiede
per questo impegno e attenzione. Ecco come facilitarlo e come aiutare il bambino a superare le possibili difficoltà iniziali.
per questo impegno e attenzione. Ecco come facilitarlo e come aiutare il bambino a superare le possibili difficoltà iniziali.
Che significato ha
l’inserimento nella scuola primaria?
L’ingresso in scuola elementare
coincide per il bambino con il completamento di un processo di crescita, che lo
porta al passaggio da un mondo soggettivo ad un mondo basato su una realtà
oggettiva, governata da regole condivise in cui lui dovrà compiere uno sforzo
di adattamento, adeguandosi a ciò che la realtà gli richiede.
È come uscire dal confine
protetto della proprio casa, da solo, col proprio bagaglio costruito nei
precedenti cinque anni ed avventurarsi verso un mondo nuovo, verso la crescita
e quindi verso la vita con le sue sfide ed i suoi rischi.
In questa fase di vita il bambino
ha raggiunto la sua individualizzazione ed una sufficiente autonomia personale
ed è in grado di controllare la sua istintualità. Egli ha consapevolezza di se
stesso e degli altri e soprattutto comincia a sperimentare il piacere di
investire le sue energie nei processi di crescita, di conoscenza e di
apprendimento del nuovo.
Quali competenze deve avere il
bambino per poter affrontare la scuola primaria?
Per poter affrontare con facilità
l’ingresso in scuola elementare il bambino deve possedere, nel suo bagaglio, delle
competenze già acquisite:
- completa ed armonica capacità
motoria globale e di coordinazione visuo-motoria,
- adeguate capacità visive ed
uditive,
- padronanza del linguaggio sia
in comprensione che in espressione,
- capacità di prestare e
mantenere l’attenzione,
- capacità di associare
simbolicamente.
Egli deve inoltre essere in grado
di entrare in relazione con gli altri, riconoscendo e rispettando i suoi e
altrui confini e le regole del gruppo.
In sintesi deve poter integrare
ed armonizzare i suoi aspetti cognitivi, affettivi e sociali.
È consigliabile l’ingresso
anticipato a scuola?
È molto importante, soprattutto
con l’ingresso anticipato a cinque anni in scuola elementare, che nell’ultimo
anno di materna i bambini siano stati osservati dalle insegnanti circa le loro
competenze e siano stati facilitati con programmi specifici verso
l’acquisizione dei prerequisiti.
Qualora esistano problemi
specifici, come deficit neuro-sensoriali, deficit cognitivo, disturbo del
linguaggio o situazioni psicopatologiche, di svantaggio culturale o sociale, è
consigliabile consultare il neuropsichiatra infantile o lo psicologo, al fine
di valutare se il bambino è effettivamente pronto all’ingresso in scuola
elementare o se è preferibile aspettare un anno ancora per permettere una
migliore maturazione.
Come facilitare l’ingresso? E
se manifesta difficoltà?
In genere l’adattamento alla
scuola primaria avviene con naturalità ed il bambino percepisce il passaggio
dalla scuola materna alla elementare come un momento di crescita gratificante.
Tuttavia è importante facilitare
tale passaggio rendendolo conosciuto e prevedibile, partendo dalla conoscenza
reale di spazi, persone e contesti che si troverà ad affrontare.
In molte scuole comprensive, già
nell’ultimo anno di materna, le insegnanti portano i bambini a conoscere le
aule, gli insegnanti e le attività della prima elementare.
Quando il bambino la inizierà,
dovrà essere informato con cura circa i tempi, le regole, le attività
integrative e rassicurato sulla possibilità di mantenere ancora spazi e tempi
dedicati al gioco ed alla ricreazione.
Inizialmente, soprattutto nelle
classi a tempo pieno, si dovrà limitare l’assegnazione di compiti a casa al
solo fine settimana.
I genitori devono aiutare il
bambino nel suo processo di responsabilizzazione e quindi condividere le regole
della scuola, dando soprattutto il buon esempio nel rispettare gli orari, nel
prendersi cura del materiale scolastico, nel rispetto delle indicazioni date
dagli insegnanti, etc.
Il bambino è spesso nella nostra
cultura sottovalutato circa le sue possibilità di farsi carico di regole ed
impegni.
Occorre inoltre aiutare il
fanciullo a trovare la corretta modalità di comunicazione e relazione con
eventuali bambini di lingua e cultura diversa dalla propria o con bambini
diversamente abili, presenti nella sua nuova classe.
A tale proposito è importante da
parte del genitore valutare se sono presenti ansie proprie rispetto a tali
situazioni che il bambino percepisce e fa sue.
Il bambino può presentare
difficoltà nell’adattarsi alla nuova situazione: fenomeni regressivi e
manifestazioni di ansia, come risvegli notturni, enuresi e tic, sono molto
frequenti ed in genere transitori e non devono eccessivamente allarmare,
tendono a risolversi spontaneamente quando il bambino acquisisce sicurezza
nella nuova situazione.
Tuttavia manifestazioni
persistenti possono essere indicative di un disagio più profondo, le cui cause
sono legate in genere a precedenti fasi di sviluppo ed in particolare alla
relazione con le figure primarie.
A volte, a livello inconscio, i
genitori, ed in particolare la madre, possono vivere l’ingresso in prima
elementare come perdita del bambino che
cresce, si separa e prova piacere nell’investire le sue energie psichiche al di
fuori della relazione con loro.
Il bambino può a sua volta
percepire tale dolore dei genitori e vivere la scoperta del piacere di entrare
in questo nuovo mondo con senso di colpa, sentendosi in conflitto e spesso può
attivare sintomi, quali il classico mal di pancia, che lo rende impossibilitato ad andare a
scuola mentre, nei casi più seri, si arriva al rifiuto diretto.
In ogni caso, di fronte alle
difficoltà, occorre parlarne, sia tra i genitori che con gli insegnanti, e
collaborare al fine di comprendere la difficoltà del bambino.
Occorre, a tale proposito,
ricordare che i bambini sentono se i genitori ripongono o meno fiducia nella
capacità della scuola di sostenerlo, se hanno
fiducia sufficiente nelle sue risorse e se lo considerano capace di
affrontare e superare le difficoltà.
È inoltre molto importante
verificare che non siano presenti difficoltà neuropsicologiche non riconosciute
che, impedendo al bambino di apprendere con facilità, generino in lui ansia e
difensivamente la tendenza a eludere e a rifiutare l’apprendimento e la scuola.
Spesso infatti difficoltà
oggettive, come, ad esempio, disturbi visivi, uditivi, dislessia, vengono
confusi con disturbo psicopatologico,
pigrizia o cattiva volontà del bambino.
Molto spesso questi sono i
bambini che sviluppano un comportamento reattivo ed iperattivo.
In una
società democratica e civile l’inserimento del diverso nella scuola e nella
società è un diritto e un dovere.
La diversità è
una realtà nella nostra società ormai abbastanza diffusa, non sempre accettata
e molto complessa. Sembra strano che in una società che tende alla
globalizzazione e all’intercultura ci siano ancora fenomeni di discriminazione
e di giudizio del diverso. Quest’ultimo però non è solo l’handicappato o, per
meglio dire, il disabile, ma anche l’omosessuale, l’uomo con un colore di pelle
diverso dal nostro, tutte le persone che non rispondono ai canoni, da noi
fissati, della normalità.
Nonostante si
parli di integrazione, di abbattimento dei pregiudizi e delle barriere che non
permettono alle persone considerate “diverse”, di inserirsi in modo
soddisfacente nella società, ancora la strada è lunga. Infatti, ad esempio, una
persona di colore, anche se perfettamente integrata nella società, è guardato
dalla gente con sospetto, mal giudicato e si assumono nei suoi confronti
atteggiamenti di diffidenza. Quindi non basta dire che queste persone sono
integrate nella società, nella scuola. Non si deve fare l’errore di pensare che
il problema sia risolto nel momento in cui si parla di integrazione nelle
istituzioni della società, perché in questo modo non si farebbe altro che
aumentare il numero degli esclusi-integrati,
ma si deve cercare di cambiare le mentalità chiuse della gente, per far sì che
i diversi siano definitivamente accettati. Si deve cioè iniziare dalle basi,
agire innanzitutto nella scuola, che è l’agenzia educativa a cui sempre di più
i genitori lasciano il compito di educare i propri figli. La scuola per prima
deve gettare le basi per una mentalità aperta alla diversità, di qualunque tipo
essa sia. La scuola oggi è in grado di fare grandi passi avanti, grazie anche
alla recente attuazione dell’autonomia scolastica. Si deve quindi intervenire
con un dibattito e con un attento esame di questa problematica ed individuare i
metodi e le procedure più adatte ad un corretto intervento, per risolvere
questo delicato problema. Questi interventi dovrebbero essere ispirati ad una
celebre frase di J.J. Rousseau secondo cui «l’uomo ha bisogno dello sguardo
altrui»; il diverso è necessario alla completezza dell’umanità stessa.
Egli, con tale frase, disse che la nostra stessa identità procede di
pari passo con quella dell’alterità, della diversità. Possiamo dire “io” solo
se contemporaneamente diciamo “altro”. E’ ovvia la diversità nella natura,
nelle cose create dall’uomo e quindi dovrebbe essere ovvia la diversità fra gli
uomini stessi.
In poesia e in prosa.
Alcune testimonianze da persone che
“vivono il disagio”
Handicap (24 Dicembre 1995)
Forse senza quattro ruote
è più facile.
E’ più facile divertirsi.
E’ più facile muoversi.
E’ più facile.
E’ anche più facile
conquistare i ragazzi.
Ma io credo
che le quattro ruote
servono a conoscere
tutta quanta
la vita
e saperla affrontare
e vincere.
Alice Sturiale
Aneddoto del paradiso
e dell’inferno
Un uomo va a visitare l’inferno e
rimane impressionato dal fatto che ci sia imbandita una tavola ricca di ogni
genere di cibo, ma le persone non potevano usufruirne perché, menomate alle
mani, non riuscivano ad afferrare nulla. Il visitatore così decise di recarsi
in paradiso e lì ritrovò la stessa situazione. Cambiava però una cosa: le
persone, menomate, si imboccavano a vicenda, aiutandosi reciprocamente. Era
questo che li rendeva felici e che diversificava le due situazioni.
(raccontato
da Carmelina Rotundo)
La favola di re Trentatré (di Claudio Imprudente)
C’era una volta un re che si
chiamava Trentatré. Un giorno Trentatré pensò che un re dovesse essere giusto
con tutti. Chiamò Sberleffo, il buffone di corte: «Io voglio essere un re
giusto - disse Trentatré al suo buffone - così sarò diverso dagli altri e sarò
un bravo re».
«Ottima idea maestà» rispose
Sberleffo con uno sberleffo.
“Nel mio regno - pensò il re -
tutti devono essere uguali e trattati allo stesso modo”. In quel momento
Trentatré decise di cominciare a creare l’uguaglianza. Prese il canarino dalla
gabbia d’argento e gli diede il volo fuori dalla finestra: il canarino
ringraziò e sparì felice nel cielo. Soddisfatto della decisione presa,
Trentatré afferrò il pesce rosso nella vasca di cristallo e fece altrettanto,
ma il povero pesce rosso cadde nel vuoto e morì.
Il re si meravigliò molto e
pensò: “Peggio per lui, forse non amava la giustizia”.
Sberleffo gli consigliò di
cambiare tattica.
Trentatré, allora, prese le trote
della fontana del suo giardino e le gettò nel fiume: le trote guizzarono
felici. Poi prese il merlo dalla gabbia d’oro e lo tuffò nel fiume, ma questa
volta fu il merlo a rimanere stecchito.
“Stupido merlo - pensò Trentatré
- non amava l’uguaglianza”. E chiamò di nuovo il buffone Sberleffo per
chiedergli consiglio. «Ma insomma! - gridò stizzito il re - come farò a
trattare tutti allo stesso modo?». «Maestà - disse Sberleffo - per trattare
tutti allo stesso modo bisogna prima di tutto, riconoscere che ciascuno è
diverso dagli altri. La giustizia non è dare a tutti la stessa cosa, ma dare a
ciascuno il suo».
Il papà di una bambina con deficit
Ieri pomeriggio siamo andati a
giocare con gli aerei. Mi era venuta l’idea un paio di giorni prima,
girovagando appena fuori porta in cerca di occasioni. Dintorni di Linate, campi
coltivati, cascine semiabbandonate tagliate in due da ferrovie, autostrade,
scali. E poi il Lambro, pigro e torbido, onnipresente da queste parti mentre
trascina verso valle la coscienza sporca dell’operosità metropolitana. Come
spesso mi accade, nelle pieghe impensate dei paesaggi, tra righe improbabili di
un mondo che non è più ciò che era pochi metri addietro senza essere ancora ciò
che verrà un chilometro dopo, incrocio angoli inaspettati eppure ovvi, come
l’orizzonte vasto che si apre d’incanto quando il panorama usuale irto di
filari, tralicci, antenne, edifici, silos e gru, svanisce dietro una curva,
cedendo il passo all’aeroporto. E allora mi siedo stupito, ringraziando gli
invasori di metallo che hanno liberato spazio per le loro ali e per i miei
occhi. Le ho detto che andavamo ad aspettare gli aerei scendere dal cielo per
riposarsi prima di ripartire. Qualche tempo prima eravamo dalla parte opposta,
al Terminal. Avevamo accompagnato la nonna, trepidante, ad affrontare il primo
volo e dopo l’imbarco, ero andato in cerca di un buon posto, sperando di
sbirciare qualche decollo in prima fila. Ma non era stato un gran successo.
Stavolta lato atterraggio. Meglio. E per due motivi: il primo è che quegli
aggeggi volanti, mentre arrancano nello sforzo disperato di guadagnarsi il
cielo, fanno un casino insostenibile; quando planano invece sono molto più discreti
e si concedono allo sguardo per più tempo. Il secondo motivo è che lo scalo,
dalla parte del corridoio di atterraggio, è praticamente deserto. Se uno vuol
giocare con gli aerei sperando di grattar loro la pancia appena un attimo prima
che la sottraggano, mettendola al riparo dell’asfalto, è il posto ideale.
Il problema con la Luna è farle
capire cosa stia per accadere. Viviamo in un mondo di avverbi che inoltrano
ognuno nei labirinti del tempo senza perdere, il più delle volte, la via del
ritorno. Non è la coniugazione dei verbi che crea lo scorrere degli eventi.
Potremmo eliminare per decreto Passato, Futuro, Piuccheperfetto, Futuro
anteriore e restare con gli abiti succinti del Presente Indicativo senza
smarrirci, intrappolati tra ieri e domani. Ma gli avverbi no. Gli avverbi sono
insostituibili. Dopo, prima, fra poco, adesso, una volta… Se qualche
delinquente semantico li rubasse d’un tratto, avremmo seri problemi a parlare
di qualcosa che non sia il presente davanti ai nostri occhi. Quando da ragazzo giocavo a mimare i titoli
del film, assegnare alla squadra avversaria un titolo con un avverbio poteva
assicurare la vittoria. Una vita senza avverbi dunque, è una vita senza tempo.
E cosa è una vita senza tempo? Intanto il primo atterraggio ce lo siamo perso
perché non avevamo ancora raggiunto il posto di osservazione. E Linate non è
più quello di una volta. Dal balcone di casa, solo due anni fa, potevamo
ammirare la fila: tre o quattro lucine nel cielo, una dietro l’altra, che si
avvicinavano sempre più basse alla pista, sfasate di poco. Dall’altra parte
altrettante lucine che si impennavano, rincorrendosi. Poi è arrivata Malpensa
2000 e le lucine si sono diradate. Meno male, ovviamente. Meno rumore, meno
inquinamento, meno traffico. Ma anche meno pance da grattare, ora che eravamo
qui ad aspettare al varco. Cioè: io ero lì che le aspettavo al varco per
indicare a mia figlia, non appena ne avessi avvistata una, l’oggetto del nostro
gioco. Lei nel frattempo si incuriosiva per tutto il resto: la recinzione
dell’aeroporto, la bordatura di erbacce e papaveri che ornava lo strabello
pedonale lungo il quale ci eravamo incamminati, il fossato, soprattutto il
fossato, carico d’acqua scura e veloce che attirava in modo irresistibile.
Niente di che per altro: metallo, sterpaglie, acqua sporca. Ma con un pregio
indiscutibile rispetto agli aerei che non si facevano vedere: c’erano. Erano
lì, palpabili, visibili, avvicinabili. Nel canale irriguo Luna avrebbe voluto
tuffarsi a capofitto. Lei che si spaventa quando deve affrontare un gradino di
un paio di centimetri. Che alla sola prospettiva di abbandonare il sostegno
rassicurante della mano e fidarsi delle proprie gambe, preferisce riguadagnare
la terra.
Il fascino dell’acqua corrente è
troppo per lei. Non dell’idea di “acqua che scorre”, proprio del fatto che ha
davanti a sé. Invece l’aereo che fra poco sarebbe arrivato non esisteva, perché
interessarsene? Sicché tra campi di ortaggi, recinzioni e rogge eravamo in due:
l’uno proteso con l’orecchio ad aspettare un evento preventivato non ancora
reale, l’altra intenta a godersi quello che il mondo la metteva a disposizione.
Forse una vita senza tempo è più sana. Qualche ora e un paio di pance più
tardi, nel parco giochi sotto casa, il destino ci avrebbe fatto incontrare il
tempo nella sua versione peggiore, con indosso i pantaloncini e la maglietta di
un ragazzone undicenne. Eravamo appena arrivati e Luna si stava esibendo in
alcune acrobazie sul fondo dello scivolo, quando lui irrompe sulla scena
arrampicandosi sullo scivolo contiguo e chiedendoci quando ce ne saremmo
andati. Non ho capito subito, ovviamente. Non c’è frequentazione con i problemi
che tenga: alle azioni dell’altro, in prima battuta, si attribuisce sempre e
d’ufficio un valore di “normalità”. Dunque se sei appena arrivato da qualche
parte e un ragazzino ti chiede quando te ne andrai, fatichi a inquadrare la
domanda in uno schema precostituito che la renda comprensibile. Devo aver fatto
una faccia da idiota. Alla seconda domanda ripetuta esattamente come la prima e
poi la terza, identica alle due precedenti e del tutto ignare delle risposte
che nel frattempo stavo balbettando, ho visto mia figlia allo specchio. Cos’è
una vita senza tempo? Probabilmente una vita senza angoscia. Se non riesci a
prefigurarti ciò che sta per accadere, non puoi occupartene. O perlomeno non lo
farai sino a quando ciò che sta per accadere, non accadrà sul serio. A noi
comuni mortali necessitano anni per giungere a questo traguardo. Sempre che ci
si arrivi. Qualcuno, del resto, si perde per strada e passa il tempo a
esorcizzare il tempo che passa, come quel ragazzo dalle fattezza normali,
costantemente alle prese con il bisogno di pianificare lo scorrere degli
eventi. Luna,invece, è di suo nella condizione che monaci Zen e mistici in genere,
conquistano faticosamente con il digiuno e la disciplina. Poi non so dire se
sia fortunata lei, o se siano monaci e mistici a buttare l’esistenza dietro un
compito impossibile. Sempre che non sia lo scopo primario dell’esistenza umana
quello di consacrarsi ai compiti impossibili, nel qual caso credo di essermi
portato parecchio avanti con il lavoro. Ad ogni modo ora ero lì ,strabico, con
un occhio su mia figlia in fuga verso l’acqua e un vigile all’orizzonte quando,
finalmente, il panciuto arriva.
(Tratto
da una storia vera)
Impressioni personali
Leggendo i vari materiali,
prodotti da bambini diversamente abili, ci siamo positivamente sorpresi di
quanto, nonostante le loro menomazioni, siano in grado di scrivere pensieri
profondi ed elaborati, al pari di una persona, cosiddetta normale.
Nella poesia di Alice Sturiale si
percepisce come la sua diversità non venga avvertita come handicap, ma, al
contrario, venga affrontata serenamente e cercando di trovare gli aspetti
positivi della sua limitazione.
Nella favola del re Trentatré, i
giusti propositi del re, che vanno, di conseguenza, ammirati e rispettati, si
concretizzano poi nel modo sbagliato, perché il dare a tutti le stesse
opportunità, non vuol dire fare il loro bene. Rispettare la diversità, fornendo
a ciascuno i mezzi necessari al proprio sviluppo, invece, costituirebbe
l’atteggiamento corretto per la realizzazione del proprio sé.
Il terzo racconto, tratto da una storia vera,
è l’esperienza di un padre di una bambina disabile, che racconta lo stupore e
la curiosità manifestata dalla bimba alla vista di semplici cose, ma come, allo
stesso tempo ella abbia bisogno della presenza e protezione del padre per fare
ciò.
TIROCINIO
DIRETTO
Le 50 ore di tirocinio che ho
svolto quest’anno, le ho effettuate presso l’Istituto Comprensivo Statale
“Centro Storico”, in via della Colonna 1, a Firenze; lo stesso istituto che
l’anno prima si chiamava scuola primaria “Cairoli Alamanni”.
Anche nel 2009 ho trovato
accoglienza in una classe quinta, ma rispetto al 2008 la situazione è stata ben
diversa. I miei primi giorni hanno visto una calorosa e confortevole
accoglienza da parte delle maestre della classe, Miriana Meli e Laura Ferrini,
e la “comprensibile diffidenza”da parte dei bambini: alcuni ignoravano la mia
presenza, altri mi osservavano con curiosità e probabilmente si chiedevano chi
fossi e cosa ci facessi nella loro classe. Il primo giorno insieme, quindi,
abbiamo pensato di presentarci a vicenda e già pochi minuti dopo mi sono reso
conto della “colorata bellezza”di quella classe. In pratica, ogni bambino,
timidamente, diceva il proprio nome, la provenienza e qualcosa di sé. Quando
hanno finito loro, mi sono presentato io alla classe, parlando di me, della mia
famiglia, dei miei studi e poi mi sono piovute addosso mille domande! Era ciò
che mi aspettavo: tutte le mie constatazioni sulla proverbiale curiosità dei
bambini, fatte l’anno prima, sono state confermate dal nuovo gruppo.
Man mano che si presentavano,
segnavo i loro nomi su un foglio nel quale avevo disegnato un abbozzo rapido
della classe con la sistemazione dei bambini, in modo tale da facilitarmi il
compito di memorizzazione e di associazione nome-bambino-posto. La sera, a
casa, rileggendo quanto avevo scritto su quel foglio, ho fatto subito le prime
riflessioni sulla composizione della classe: su un totale di 15 bambini, solo 3
sono femmine. In tutto 4 sono di origine italiana, gli altri stranieri! Ovvero
quasi il 75% della classe, formato da un peruviano, un marocchino, un’egiziana
,una sudamericana, quattro filippini, due albanesi e un kosovaro. Direi che si
può parlare tranquillamente di multiculturalità!
Tornando a quel primo incontro,
essendo le ore pomeridiane dopo la mensa, secondo l’orario i bambini dovevano
seguire la lezione di Inglese con un altro maestro, mentre Miriana avrebbe
portato il bambino kosovaro, che d’ora in poi chiamerò con A. (per ovvie
ragioni di privacy), in un’altra classe per una delle tante lezioni frontali
individuali allo scopo di potenziare le sue capacità e facilitare
l’inserimento. La storia di A. è particolarmente difficile: è arrivato in
Italia dal Kosovo all’inizio dell’anno nuovo ed è stato inserito in questa
quinta circa a metà del secondo quadrimestre, con nessuna conoscenza della
lingua italiana. In queste condizioni, le maestre si sono adattate, con la
passione che contraddistingue il loro lavoro, alla situazione e hanno
“escogitato” un “percorso” differente per il bambino, in poco tempo.
A. ha seguito le lezioni insieme
alla classe nonostante avesse consegne differenti, schede diverse, ecc. Durante
le ore di compresenza con l’insegnante di Inglese, la maestra di turno lo
portava in un’altra aula per una lezione di potenziamento diretta a migliorare
il suo italiano e le conoscenze di matematica.
Alla richiesta della maestra
Miriana di scegliere se rimanere in classe a seguire l’ora di Inglese oppure
seguire lei con A., non ho avuto dubbi sulla decisione e ho approfittato subito
dell’occasione, per osservare cosa un insegnante può e deve fare in certi casi.
L’inserimento e l’integrazione
di un alunno straniero è una tematica sulla quale rifletto spesso e che in un
certo senso mi incute se non timore perlomeno insicurezze sulle mie future
capacità di insegnare: sarò all’altezza della situazione? Riuscirò a far
integrare il bambino/a straniero/a nella classe? Se non conosce
l’italiano,quali strategie applicare in così poco tempo? Probabilmente sono
dubbi dettati dall’inesperienza, ma spesso mi ritrovo a immaginare situazioni
ipotetiche e virtuali mettendomi alla prova, chiedendomi: «In questo caso, cosa
faresti? In una situazione del genere, come ti comporteresti?».
Non penso che sia un
atteggiamento paranoico per un futuro insegnante: bisogna entrare nell’ottica
del “tutto è possibile” a scuola, osservare, pensare, proiettarsi nel futuro,
prevedere eventuali situazioni o scelte; essere sempre critici e soprattutto
autocritici.
Ciò che è indispensabile per un
insegnante è la consapevolezza di poter contare sui colleghi, il fatto che non
si è soli e che non sempre ci si può far carico di tutti i fardelli.
La collegialità, il lavoro
di squadra, il team docente è quindi la conditio sine qua non, è
essenziale per la “sopravvivenza” di un insegnante e per la creazione di un
clima sereno e positivo.
Comunque sia, durante questa mia
prima lezione con un bambino straniero, ho avuto modo di osservare e riflettere
su tante questioni: l’importanza di un rapporto pacifico con l’alunno, riuscire
a trasmettergli calma nel fare le cose, le proprie intenzioni nei suoi
riguardi, il fatto che non si abbiano pretese o particolari aspettative a breve
termine.
Ma ci si rende conto immediatamente,
mettendosi nei panni del bambino, anche delle difficoltà che la situazione
implica: l’imbarazzo di A. di fronte a persone che conosce appena, la
difficoltà di riuscire a capire ciò che ti viene detto o chiesto, l’impotenza
davanti all’incapacità di riuscire a farsi capire e ad esprimere qualsiasi
cosa. E poi le relative conseguenze: la frustrazione porta ad assumere
atteggiamenti offensivi e/o difensivi; si cerca un altro canale di
comunicazione perché la parola non basta, quindi si passa al contatto fisico, a
volte inopportuno a volte violento. Ci si rifiuta di fare quanto ci viene
richiesto. Si crea un’immagine fortemente negativa che bisognerebbe valutare
attentamente: il pregiudizio è uno dei peggiori nemici della democraticità
e dell’uguaglianza. Spesso si creano degli stereotipi: il bambino è
manesco, testardo, non riesce ad integrarsi nel gruppo, non ha voglia di
studiare. Ma cosa c’è dietro ogni singolo atteggiamento?Qual è il vissuto
emozionale del bambino? Su questo bisogna riflettere.
Alle difficoltà che devono
affrontare gli insegnanti, alle difficoltà che “scuotono” il bambino, bisogna
necessariamente affiancare e considerare quelle che riguardano il resto della
classe: è ancora forte, a parer mio, a quest’età, la fase dell’egocentrismo
quindi non tutti riescono a mettersi nei panni dell’altro,è ancora
un’operazione difficile decentrare il proprio punto di vista. Quindi qualsiasi
comportamento inadeguato del bambino straniero diventa un insulto personale, un
dispetto, una cattiveria “fatta apposta”; ogni occasione diventa buona per
attaccare il “singolo”, per escluderlo, per isolarlo.
Solo vivendo la situazione
in prima persona all'interno di una classe si può capire realmente cosa
significhi per tutti affrontare un inserimento a metà anno scolastico,
integrare uno o più bambini stranieri che non conoscono la lingua e così via.
Devo dire, come è giusto che sia,
che tanto le insegnanti quanto i bambini hanno affrontato magistralmente la
situazione: questo l'ho potuto constatare durante le mie ore di tirocinio
giorno dopo giorno, facendomi coinvolgere nelle dinamiche del gruppo-classe.
Non bisogna sottovalutare però le
problematiche che vengono a crearsi in classi così eterogenee etnicamente e
culturalmente, già a partire dalle differenti mentalità dei genitori e dalla
forte influenza che esercitano sul pensiero dei loro figli (che emulano il loro
modo di essere); i bambini più timidi tendono ad isolarsi più facilmente;
quelli più “vispi” tendono a mettersi in mostra e a formare sottogruppi all'interno
delle dinamiche relazionali della classe; le difficoltà nel riuscire ad
esprimersi e a comunicare con tutti, rallentano notevolmente il percorso
didattico, perché spesso bisogna soffermarsi su tematiche rispetto alle quali
alcuni bambini sono più sensibili (famiglia, religione, rispetto delle regole,
sfera emozionale); è riscontrabile anche un maggiore livello di infantilismo,
una mancanza di serietà e maturità nell'affrontare certe situazioni. Per non
parlare dei “secolari” problemi dell'insegnamento, quali il dover alzare la
voce per farsi ascoltare, l'incapacità a rimanere se non fermi perlomeno seduti al proprio
posto, il mantenere viva l'attenzione per più di cinque minuti.
Non voglio apparire pessimista o
negativo, né tanto meno dare un'immagine sbagliata della classe: la V B è una
classe di bambini meravigliosi, ciascuno con la sua storia da raccontare, con i
suoi sogni e desideri, ma anche le paure e le insicurezze. Questi bambini hanno
un'infinita necessità di comunicare, nel senso di esprimersi, di aprirsi e di
sfogarsi; hanno fortemente bisogno di un'educazione ai sentimenti,
all'emozionalità; perché sanno trasmettere, a chi li sa ascoltare, una
moltitudine di stati d'animo e di emozioni che fanno sperare in un futuro
migliore e rendono il mestiere dell'insegnante di valore inestimabile.
Come dicevo prima, mi sono
lasciato coinvolgere pienamente e volontariamente nelle attività di classe. Già
dai primi incontri ho collaborato con le maestre, spinto anche dalle loro
invitanti richieste, nel seguire con particolare attenzione il bambino
kosovaro; senza mai perdere di vista il resto della classe che ho osservato con
molta attenzione; i primi momenti con A. sono stati imbarazzanti e frustranti
(penso per entrambi): lui di nazionalità straniera, io straniero a lui,
entrambi con difficoltà a capirci e a farci capire. E' nata però subito una
certa complicità e un sentimento di simpatia reciproca.
A. è un bambino molto sveglio,
iperattivo, fortemente ricettivo, sempre sorridente e mi sono reso conto da
subito che era tutta questione di pazienza, volontà e capacità di
coinvolgimento da parte dell'insegnante, in questo caso da parte mia. Di
conseguenza, sempre con il consenso delle maestre (fra l'altro evidentemente
entusiaste della mia “volontà di fare”), ho cominciato a preparare lavoretti,
attività ed esercizi simili a quelli dei compagni di classe ma più consoni al
suo livello di conoscenze, più coinvolgenti emotivamente. Dopo qualche
incontro, mi sono reso conto che questo approccio funzionava, che era A. stesso
a chiedermi di lavorare con lui: tutto ciò mi faceva sentire utile, mi
dava soddisfazione, per non parlare dell'entusiasmo trasmessomi dalle mie tutor
che mi hanno ricoperto di elogi e incitamenti. Sentivo, insomma, una carica che
superava la fatica e le difficoltà incontrate per raggiungere l'obiettivo che
mi ero prefissato.
Parallelamente, seguivo gli altri
durante le lezioni di classe, cercavo di dare input e spunti di riflessione (a
seconda della lezione), giravo tra i banchi, controllavo i quaderni e durante
le pause cercavo di socializzare con loro. Basta poco tempo, in una qualsiasi
classe, per capire che ogni singolo alunno avrebbe bisogno di un insegnante
“tutto per sé”; affermazione che è in netto contrasto con quanti pensano che sia
vantaggioso reinserire nel sistema scolastico italiano il maestro unico (o
prevalente, che dir si voglia); scelte che lasciano riflettere su quanto poco
queste persone conoscano le reali condizioni della nostra scuola primaria e
quanto importante sia, invece, l’esperienza diretta sul campo.
I momenti peggiori sono poi
quelli più importanti: se si pensa all’onere di un insegnante che deve decidere
le sorti di un bambino immigrato (e non) che sta per lasciare la scuola
primaria, per affrontare la nuova avventura delle scuole medie, che deve
cambiare classe e rifarsi nuove amicizie, si può capire quanto gravoso sia
questo compito e quanto ben ponderate devono essere le decisioni. E proprio in
questa situazione mi sono ritrovato quando ho deciso di partecipare a
due ore di programmazione pomeridiana con le maestre, Miriana e Laura,
durante le quali oltre ad altri argomenti relativi alla situazione della
classe, ai casi particolari, ai miglioramenti, alle situazioni problematiche
del periodo, sono stato coinvolto in una
riflessione profonda sulle sorti di A.: sono venuti fuori punti di vista
che non avevo mai preso in considerazione che mi hanno indotto a riflettere
criticamente su certi aspetti della situazione, aprendomi gli occhi, in merito
ad alcune questioni che prima non vedevo. Di tutto questo sono veramente grato
ad entrambe le mie tutor, soprattutto per avermi coinvolto “alla pari” nel loro
lavoro collegiale.
Sempre in merito alla continuità
(verticale ed orizzontale), alla collaborazione e alla fruizione dei
servizi locali offerti dal territorio, ho avuto modo di assistere ad un
incontro di una giovane educatrice, Lisa, del centro linguistico “Ulysse” che
si occupa principalmente di insegnare l’italiano come lingua seconda alle
persone immigrate. Ovviamente, queste istituzioni sono testimonianza di
collaborazione tra scuola e territorio locale, al fine di potenziare le
conoscenze della lingua per i bambini stranieri. L’incontro è durato due ore ed
è organizzato per piccoli gruppi: durante il nostro erano presenti A. e la sua
sorellina, entrambi kosovari, un filippino simpaticissimo, una timida bambina
norvegese e una americana, del Maine. Anche questa volta, sono stato felice di
aver avuto l’opportunità di osservare le dinamiche relazionali fra bambini di
così diversa provenienza culturale: un’occasione di crescita professionale
durante la quale, dopo qualche minuto di osservazione, ho partecipato
attivamente con sincero entusiasmo da parte di Lisa che è stata molto
disponibile nei miei confronti.
Un altro momento che rimarrà
impresso nella mia memoria, riguarda uno degli ultimi incontri avuti con la
classe a fine tirocinio: le maestre erano impegnate nel compilare alcuni moduli
inerenti la mia presenza nella loro classe come tirocinante, sempre con immediata
disponibilità e vivace entusiasmo; io sono rimasto da solo in aula con i
bambini che mi facevano partecipe della loro quotidiana dose di confusione e di
baldoria. Piano piano, sono riuscito ad attirare la loro attenzione, chiedendo
gentilmente e con molta calma un po’ di silenzio, fino a quando non ho ottenuto
un’inaspettata quiete: tutti erano rivolti verso di me, silenziosi, attenti e
incuriositi. Allora, alzatomi, mi sono appoggiato alla cattedra per stare più
vicino a loro (non amo molto stare seduto dietro al “banco dei giudici”).
Conoscendo la loro passione per il disegno, avevo pensato di portar loro una
cartellina di disegni fatti da me molti anni prima e avevo preparato (con tanta
pazienza!) alcuni disegni geometrici (rappresentazione di effetti ottici in
bianco e nero che attiravano molto l’attenzione dei bambini) da regalare loro
come piccolo pensiero per ricordarsi di un “passeggero-maestro” di nome Piero.
È iniziata così una serena
chiacchierata sui miei disegni, su quanto tempo avevo impiegato per farli,
sulle tecniche migliori da utilizzare; la cosa meravigliosa è che tutti
facevano domande serie e interessate, parlando uno alla volta per alzata di
mano! Ho avuto la sensazione per pochi minuti di avere tutto sotto controllo:
sembrava una vera e propria lezione di educazione all’arte o all’immagine che
aveva coinvolto la classe intera.
Pochi minuti di “gloria” che mi
hanno dato una soddisfazione immensa, confermandomi la decisione della strada
intrapresa e scelta, al di là delle difficoltà, delle continue preoccupazioni
che ne verranno e nonostante la precarietà a cui probabilmente andremo incontro
noi, futuri insegnanti, sia a livello economico che occupazionale.
Sono veramente felice
dell’occasione avuto quest’anno di lavorare con persone competenti ed
accoglienti, della possibilità di ritrovarmi in una concreta situazione
che rappresenta fattivamente la realtà sociale; oggi che viviamo nell’era
della globalizzazione, oggi che sempre più dobbiamo essere attivi nella
società e sentirci cittadini del mondo (non più solamente nel mondo),
oggi dobbiamo puntare a 360° sulla scuola che rappresenta le fondamenta
della civiltà.
Affermo con fierezza che, quello
di quest’anno, è stato un vero e proprio tirocinio!
ALLEGATI


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