sabato 31 marzo 2012

INTERGAZIONE

“Quando disabilità vuol dire anche solitudine”

Leggendo la storia di Marco Viani non ho potuto fare a meno di pensare a mio zio e all'handicap che lo ha accompagnato per oltre trent'anni. Anche lui, come Marco, diventato disabile per una tragica fatalità. Giovane ventenne, alla ricerca di fortuna qui in Toscana, con tanti progetti e tanta speranza, si è ritrovato cieco e con una vita tutta da ricostruire. Di quei primi tempi non ho ricordi, perché non ero ancora nata, ma fin da piccola ho sempre sentito parlare di lui in casa mia: mio zio non ha mai accettato completamente la sua nuova condizione, nel corso degli anni ha imparato a conviverci senza però accettarla fino in fondo, come invece è riuscito a fare Viani. Leggendo la testimonianza di Marco è emerso un uomo forte, volenteroso di farcela nella vita professionale e personale. Anche mio zio è stato un uomo molto forte: uomo caparbio e orgoglioso è riuscito a frequentare dei corsi per imparare il Braille e per imparare un mestiere. Era infatti diventato centralinista all'Università di Firenze, in Piazza S. Marco, amato e apprezzato da tutti i suoi colleghi. Si era perciò costruito un futuro lavorativo solido e sicuro, con molti sforzi e molti sacrifici. Proprio la sua forza gli ha permesso anche di lottare per ottenere dei diritti che negli anni '80 gli venivano ancora negati. Marco e mio zio uniti quindi da una disabilità importante, (anche se diversa), e con una grande forza interiore che gli ha permesso di farsi strada nella vita.
Per quanto nella testimonianza di Marco Viani ritrovo molti elementi comuni alla storia di mio zio, c'è una cosa che caratterizzava la vita di quest'ultimo e che è completamente assente nella vita di Marco: l'estrema solitudine. Mio zio ha sempre voluto vivere da solo in una grande casa, riuscendoci tra l'altro alla perfezione (forse per dimostrare, da uomo caparbio e orgoglioso qual'era, che non aveva bisogno di nessuno). A differenza di Marco non si è mai formato una famiglia, non ha mai cercato l'amore, ritenendo che una donna potesse volerlo per ciò che aveva materialmente piuttosto che per un vero sentimento. Questa è stata una cosa che mi ha colpita molto: lui era convinto probabilmente che un amore, per quanto forte, non potesse andare oltre la sua disabilità. Solo oggi, che sono più grande, mi rendo conto di quanto fosse solo. Forse la motivazione di questa sua solitudine va ricercata in due elementi: da una parte il tipo di mentalità posseduta (uomo del sud, con certi pregiudizi, ancorato, anche a distanza di anni, all'idea che un uomo con una simile disabilità sia un peso per la famiglia e per la società), e dall'altra parte il fatto di non aver mai voluto frequentare associazioni o strutture in cui la disabilità venisse accolta e vissuta in maniera del tutto normale, superando limiti e pregiudizi. Leggendo la testimonianza di Marco viene messo in evidenza l'immenso aiuto che gli è stato dato dal Centro di Pozzolatico della Fondazione Don Gnocchi e quindi sono ancora più convinta che, se mio zio fosse stato seguito o avesse anche solo frequentato un'associazione di questo tipo, avrebbe vissuto più serenamente la sua situazione di disabilità, comprendendo che esistono persone che possono aiutarti tanto, non solo fisicamente, ma anche moralmente, che riescono a vedere oltre la disabilità, che riescono a capirti in un modo unico e speciale e che non ti fanno sentire poi così tanto diverso dagli altri. Mio zio è stato molto amato dai genitori e dai fratelli però forse, quell'eccessivo amore, gli ha impedito di vederlo come una persona dalle grandi capacità e potenzialità. Lui a modo suo, e quindi isolandosi, ha voluto dimostrare che, nonostante l'handicap, poteva farcela da solo, ma questa scelta gli è costata tanto, forse troppo, vista l'estrema solitudine che caratterizzava la sua vita.


Anna Mendicino

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